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exibinterviste la giovane arte – Andrea Melloni
parola d'artista
Dalla fotografia al video, da una meticolosa ricerca sulla materia fino ad una riflessione sulla scultura e sull’installazione. Il background di Andrea Melloni, attinge tanto ai b-movies, quanto alla filosofia, alla botanica e alla genetica. Materializzando i suoi pensieri attraverso la forma geometrica del cubo...
Da qualche anno ti diletti nell’inventare una nuova genealogia di esseri che lentamente insediano il nostro pianeta. Vai alla loro ricerca, li hai classificati, osservati e documentati. Ma chi, anzi, cosa sono queste creature dalla forma cubica?
In effetti è un paio d’anni che assisto, spesso inerme, agli strani eventi che mi accadono attorno. Il mio ruolo nei confronti di queste presenze varia da organismo a organismo, a seconda delle necessità di approccio. Tutti catalogati e studiati, alcuni necessitano di essere contrastati nel loro proliferare, altri si rivelano particolarmente utili. È un sistema di classificazione alternativo a quello Linneiano. È anche accaduto che si manifestassero solo a me, in forma privata, così che io potessi osservarli.
Per ora siamo in grado di dire, che il legame che ci unisce è stretto: di nome, innanzitutto (Amellonia Cubitaria, Polycubo Amellario, Cubide Amellare), ed anche di fatto (la loro epidermide, o micelio, o polline sembrano stranamente appartenere al mio corpo per metonimia). Mi capita di pensarli, a volte, come masse di avatars.
Il tuo lavoro mira a certificare l’irreale, a spacciare per vero ciò che apparentemente non esiste, corredando il tutto con testi pseudo-scientifici, o inventandoti un linguaggio completamente artefatto. Ma è vero che ti sei anche asportato sottili brandelli della tua pelle per simularne quella delle tue creature?
Un linguaggio efficace si adatta all’oggetto di studio. L’idioma e la grafia che uso per documentare e divulgare le sempre nuove scoperte subiscono l’inarrestabilità di questo influsso cubificatore. Per quanto riguarda la mia pelle, mi serviva chiarire lo status del Cubide Amellare (l’animale la cui pelle è anche la mia), dandogli, oltre al pattern del derma, una vera carne. Lo considero un’importante svolta tecnica e concettuale nel mio lavoro. Il perno sta nel significato che ha per me il presentare la polpa di quelle presenze, una questione semantica. Le specie precedenti (fiori e funghi) erano ricoperte da stampe digitali ed encausto siliconico. Oltre ad avere un derma morbido, traslucido e sensuoso, le prossime specie si diffonderanno condividendo materialmente lo statuto del reale.
Perché hai scelto proprio la forma cubica per dar forma alle tue riflessioni, un modulo così rigido e ottuso, che stride, apparentemente, con il mondo aperto e vitale della biologia e della genetica cui ti rifai?
Da piccolo giocavo molto coi regoli. Scherzo. La sento una sfida divertente. Il cubo è in sé la forma più anonima. Il rivestirlo di un senso, dargli un riferimento, contestualizzarlo, identificarlo, crea una dimensione parergonale, di incorniciamento, che fa trovare una nuova chiave di lettura.
Inoltre il cubo è unità di misura, contenitore di sostanze da esaminare, potenzialmente osmotico. Ciò che gli metti dentro prolifera, come fosse in vitro.
La tua ricerca, mi hai detto, può suddividersi in tre fasi. Che tipo di passaggi ha subìto?
La terza fase, attuale, è il precipitato dei passaggi che ho subito; una struttura sillogistica che seguo anche nei singoli progetti. Sono partito biomorfo, e solo successivamente si è consolidato e ripulito questo esoscheletro. Ora con lui me la vedo con molto disincanto, e mi ci diverto pure parecchio. È una questione di impianto teorico. Quando lo senti abbastanza solido, ti ci arrampichi su. Così aggrappato li ho catturati ed analizzati, moltiplicati ed allevati. E quelli, sempre di più continuano a stupirmi, ogni singolo giorno che passa.
Penso in questo momento al video Amellonia Doc. Da un lato sfrutti la forma del documentario, e dall’altra la eludi inserendo elementi ironici, fittizi, legati alla trash-TV, e b-movies. Si può parlare di docufiction?
Nelle fotografie (sia delle locations, sia dei patterns di sostanze biologiche) tendo ad essere più enciclopedico. Didascalie, spesso in bianco e nero, ricerca della testimonianza oggettiva. Nel video traspare la dinamica dell’impianto narrativo. Alla base di ogni progetto c’è una piccola storia, come il frutto delle mie osservazioni.
Nel caso di Amellonia.doc c’è la compresenza di osservazione e necessità di contestualizzare e sottointendere una chiave di lettura. Speakeraggio da CNN, unito a loghi e didascalie da tv commerciale. L’ironia, il divertissement muove tutto nel mio lavoro, anche se in effetti è nel video che si trasmette più cruda, magari perché è meno velato il gioco dell’assurdo, magari perché il racconto li è più esplicito.
Docufiction è un termine che mi piace molto, perché riunisce lo spirito b-movie (che mi guida anche a livello installativo), all’esigenza confondersi col dato quotidiano.
Fotografia, video, installazione sono i dispositivi secondo i quali declini i tuoi progetti. Ma la tua non sembra essere un’indagine dedita esclusivamente all’uso dei suddetti media; inoltre la componente della manualità è molto forte e mira alla realizzazione di oggetti impeccabili. Si tratta di una forma di scultura?
La stessa domanda me la pongo anch’io. A Londra studiavo proprio scultura e video, anche se le installazioni subiscono il mio background pittorico. Ogni tecnica ha il suo specifico e la sua utilità, strumentale al progetto che le sta a monte.
Lo sviluppo tridimensionale dei miei progetti è più simile a quello di un rendering digitale, si sviluppa vettorialmente. È uno sviluppo multilayer, ipertestuale: patterns, campionamenti, coordinate ed un background prelevato dal quotidiano. Forse la risposta è proprio nel punto d’incontro. Prima ricoprivo tutto ad encausto. Mi piacevano le tecniche antiche. Mi affascina la durata, la cura nel fare. Lo considero una questione etica profonda. Mi piace sentire il peso delle cose. La loro patina. È uno sfogo corporale quotidiano di cui non posso fare a meno.
L’alchimia del tuo lavoro si compone di elementi e, soprattutto, riferimenti diversi: dalla storia dell’arte al cinema, fino ad arrivare ai trattati di biologia e testi filosofici. Quando tutte queste componenti trovano e si sintetizzano in una forma ben precisa?
Il cubo è il catalizzatore universale, la sfida continua sta nel dargli un senso ed un riferimento. Gli studi filosofici, i rimandi incrociati, le citazioni, i prelievi sono tutti finalizzati a sostenere il racconto della loro improbabile esistenza. Creare collegamenti è una passione. Mi piace fare salti mortali. Il disseminare di indizi, il supportare ipotesi, il
lasciare tracce è a monte del sedimento estetico che consegue.
Bio
Andrea Melloni, nato nel 1975, vive e lavora a Bologna. Tra le mostre collettive si segnalano nel 2002: Oltre il giardino, Parco di Rimini, Rimini (a cura di R. Daolio e F. Mezner); Beyond the edge, Rocca Malatestiana, Montefiore Conca (Urbino), (a cura di S. Evangelisti); 10, Galleria T293, Napoli (a cura di M. Altavilla e D. Lotta); Parole parole parole, Galleria Civica, Castello del Buonconsiglio, Trento, (a cura di F. Cavallucci e A. Borgogelli); Spaesaggi, Artericambi, Verona, (a cura di M. G. Torri e F. Bonazzi), mentre nel 2001 X Biennale Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, Sarajevo; Iceberg, Salara, Bologna, come vincitore del premio Iceberg, (arti plastiche). Nel 2000 la sua personale Cubicidio, A.Z.M.Z, Bologna, ( a cura di A. Zanchetta, testo critico di M.Altavilla)
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