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«Non ho niente da dire, ma so che se permetto a me stesso di abbandonarmi a scavare e ricercare, questo processo mi porta a dei significati che non avrei mai potuto immaginare logicamente”. Mancano pochi giorni alla grande antologica di Anish Kapoor a Città del Messico, intitolata non a caso “Anish Kapoor. Archaeology: Biology”, con cui l’artista indiano ripercorre la sua carriera, dove all’inizio la ricerca sul pigmento ha avuto un ruolo fondamentale, ma che soprattutto mette in luce come il suo lavoro implichi un approccio basato su un’esperienza forte dell’atto creativo. La pratica artistica come scoperta di un metodo o di un metodo, qui sta forse il segreto di Kapoor, oggi tra le artistar del firmamento mondiale, che nelle ultime due settimane ha inaugurato una grande mostra alla Barbara Gladstone Gallery di New York e una piccola nella sede milanese della Lisson Gallery.
Ma qui è un’altra cosa. E la scoperta dei suoi colori, delle sue superinstallazioni richiede che anche il visitatore si abbandoni al gioco, allo spazio creato dall’artista. Nella spaesante sensazione di “incolmabilità”, così parlò Anish Kapoor,