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25
giugno 2016
Lo studio come luogo dell’arte. O no?
Progetti e iniziative
All’American Academy di Roma ci si interroga sull’attualità e la trasformazione dell’atelier. Che da spazio fisico a volte si riduce al solo computer
C’è tempo fino al 3 luglio all’American Academy di Roma per vedere “Studio System”, mostra collettiva che raccoglie undici artisti, alcuni dei quali sono stati borsisti all’Accademia: Yuri Ancarani, Richard Barnes, Anna Betbeze, Suzanne Bocanegra, Petra Cortright, Marcel Duchamp, Theaster Gates, Philip Guston, Josephine Halvorson, Dawn Kasper, Bryony Roberts, che il curatore Peter Benson Miller ha scelto per riflettere assieme a loro sul concetto, la funzione e lo statuto dello “studio”. Le attuali modalità di produzione sono indipendenti dalla necessità di un ambiente fisico ben definito? Il luogo della creazione non solo ha perso l’aura che lo ha accompagnato per secoli, ma si va progressivamente smaterializzando a seguito del cambiamento delle pratiche artistiche? Sono le domande cui questi artisti rispondono dando diverse interpretazioni del luogo in cui lavorano.
Locus amoenus dove l’artista si rifugia ed entra in contatto col suo io più profondo, nell’era postmoderna l’atelier inteso come luogo della creazione artistica per eccellenza è stato più volte messo in discussione. È proprio a partire da questo interrogativo sulla funzione dello studio che Peter Benson Miller pensa e costruisce questa mostra, partendo da due diversi punti di vista: il primo, una demistificazione dello studio come luogo fisico della creazione, che vede in Marcel Duchamp, con i suoi readymade e la sua visione “itinerante” dello studio, e Andy Warhol, e la sua Factory, i padri fondatori. Attraverso pratiche concettuali diverse, questi artisti hanno generato forme e luoghi atti alla creazione che vanno oltre lo spazio fisico dello studio in senso tradizionale. La seconda invece prende come punto di riferimento l’artista Philippe Guston, che peraltro è stato ripetutamente borsista in Accademia e che alla fine degli anni ’70, nel momento più alto dell’opposizione critica nei confronti dello studio, intraprese un monumentale progetto pittorico nel suo studio di Woodstock, intitolato The Studio (1969) appunto, recuperandolo categoricamente come luogo essenziale per l’artista contemporaneo.
La mostra, accessibile dal chiostro della Villa Aurelia, si apre con l’opera Fresh Widow di Marcel Duchamp aprifila degli artisti “duchampiani” quali Anna Betbeze che, con le istallazioni Heatwave e Vessels, trasforma tradizionali tappeti in opere d’arte. Per creare le sue opere realizzate nel giardino di casa, Betbeze brucia, sbianca, e seppellisce i tappeti ai quali poi incorpora fibre con pigmenti vivaci. Il risultato è un’opera d’arte accattivante e insolita: arazzi che confondono il confine tra pittura e scultura, riportandoci con la mente alle opere di Alberto Burri. Petra Cortright invece, lavora esclusivamente su computer, pratica comune a molti artisti di oggi che fanno del web e del supporto informatico il proprio studio. Dawn Kasper, autrice di una performance realizzata pochi giorni dopo l’inaugurazione, presenta On Desire or THE METHOD, composizione sonora, in cui trasforma una delle stanze dell’American Academy in Rome nel proprio studio, parte integrante dell’opera e non solo contenitore.
Con l’opera The Unabomber cabin Richard Barnes sposa la linea di pensiero di Philippe Guston; una serie di fotografie realizzate nel 1998 rappresentanti il rifugio del terrorista Theodore Kaczynski, meglio conosciuto sotto il nome di Unabomber. Raccontando così uno spazio estremamente intimo e di totale alienazione, Barnes abbraccia la concezione mistica, condivisa anche da Guston, dello studio come espressione fisica necessaria alla creazione. La mostra prosegue e termina con una sala situata al livello inferiore dove è proiettato Séance, cortometraggio dell’artista Yuri Ancarani, già presentato nel 2014 ad Artissima nell’ambito della mostra “Shit and Die” curata da Maurzio Cattelan. Ambientato a Casa Mollino di Torino, il video esplora lo spazio fisico e il lavoro concettuale dell’architetto e designer Carlo Mollino. Lo studio, che funge anche da set, è il centro nevralgico dell’opera essendone sia corpo che essenza stessa. Nell’opera di Ancarani il protagonista non è Mollino, bensì la sua casa che pregna di storia e vita ne diventa voce e mezzo di espressione attraverso una medium in contatto con l’artista.
Fabrizia Maselli