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11
novembre 2016
La vita di ciascuno è un’opera d’arte!
Progetti e iniziative
In un’epica mostra all’Hermitage di San Pietroburgo Jan Fabre dichiara il suo amore donchisciottesco e si arrende al potere della vulnerabilità e della bellezza della vita
di Irene Guida
“Knight of Despair / Warrior of Beauty” (“Cavaliere della disperazione/Guerriero della bellezza”, tdr) è il titolo della mostra di Jan Fabre all’Hermitage fino al 9 aprile 2017, (a cura di Dimitri Ozerkov con la collaborazione di Barbara de Coninck) che segue il successo della mostra realizzata con lo stesso format al Louvre di Parigi nel 2008.
Gli atlanti del Nuovo Hermitage sono sette giganti di granito nero, alti circa come un palazzo di tre piani, e servono a decorare l’atrio di ingresso, e nuovo qui significa costruito nel primo quarto dell’Ottocento, secondo il progetto neoclassico di Leo Von Klenze. Se una decorazione può essere così grande, e pesante nell’ordine delle decine di tonnellate, provate a immaginare le proporzioni e l’esibizione muscolare di tutto il resto: sotterranei, basamenti, scale, finestre, tetti, argini, strade, marciapiedi, grondaie, corridoi sospesi sull’acqua, gallerie, giardini pensili e non, e avrete un’idea realistica di una cittadella della bellezza e del valore civile e militare, dove niente è in scala umana, ma tutto ha proporzioni disumane, eppure misuratissime. Quello che rimane è la sensazione lievemente narcotizzante di essere al centro dell’impero di un nulla senza fine.
Benvenuti nel complesso museale più imponente del mondo che ha resistito a due guerre mondiali, a due rivoluzioni politiche di cui una ha cancellato un impero millenario, che è scampato a un incendio, e anche alla rapina di Napoleone, ma che ha anzi acquisito le collezioni di Eugéne de Beauharnais, diventando così l’unico testimone incondizionato del collezionismo e della museografia dal Seicento a oggi. Il complesso, celebrato dall’Arca Russa di Aleksander Sokourov, oggetto di una nuova pianificazione con la regia di Rem Koolhaas – OMA, con le nuove acquisizioni, e non solo nella sede centrale lungo il fiume Neva, ospita più di tre milioni di opere d’arte.
Jan Fabre ha realizzato una mostra memorabile, paradossale e in fin dei conti, conciliante, nella calma a tratti irreale di una città dove la nostalgia di una grandezza ancora mai vissuta e sempre in là da venire, insieme con la sensazione inebriante e un po’ spaventosa di essere poco più che formiche, contagiano il visitatore nel giro dei primi tre passi mossi per lasciare il cappotto negli sterminati guardaroba dei sotterranei del museo.
La mostra comprende sculture, disegni, video, una performance intitolata Love Supreme Power, realizzata a giugno durante le notti bianche di San Pietroburgo, con la relativa documentazione filmata donata all’Hermitage come parte della collezione permanente del XXI secolo, per un totale nell’ordine della centinaia di pezzi, installati in forma di commentari al margine di un testo sacro. La mostra è organizzata quasi in due episodi, ciascuno costituito da diverse serie di oggetti. Il primo episodio, nel ponte sul fiume e nelle sale del Nuovo Hermitage, è dedicato alle opere dei pittori fiamminghi restaurate con l’aiuto del ministero belga della cultura. Il secondo episodio è dedicato al dialogo con gli artisti russi dell’avanguardia e con Kabakov in particolare, nella nuova annessione del palazzo dello Stato maggiore, programmato dal Piano OMA e restaurato secondo il progetto di Studio 42, uno degli studi più importanti di San Pietroburgo. Il cortile coperto del palazzo, che fronteggia la facciata del palazzo d’inverno e chiude la piazza disegnata nel Seicento da Carlo Rossi, unisce con passaggi a quote diverse tutti i piani, rompendo lo schema di gallerie e corridoi, distribuendo tutte le sale e i servizi del museo, un auditorium, la biblioteca e librerie. Qui trovano posto opere fisicamente più grandi e installazioni ambientali; infatti questo è lo spazio pensato per essere il museo delle arti del XX e XXI secolo, perché le acquisizioni del museo sono in crescita. Chiude il percorso una istallazione sonora, composta da sculture, macchine da taglio per ossa, e un fantasma fatto di sezioni di ossa umane, sovrastato da strumenti di aiuto alla deambulazione con la pelle di mosaico di scarabei verdi. Sul fondo, una resurrezione di Rubens dichiara la vanità sia dell’opera che della sofferenza umana.
Jan Fabre si autodefinisce un artista provinciale e anti- intellettualistico, il cui raggio di interesse e la cui vera conoscenza della realtà non superano la bolla intorno a mezzo chilometro di distanza da dove è nato, Anversa, nel quartiere del museo dedicato a Rembrandt, e per questa completa aderenza del proprio lavoro alla propria vita biologica e da insetto divoratore, dichiara universale la sua arte. A proposito della relazione fra violenza, vita, estasi e arte, liquida la questione con un generico vitalismo, e la conversazione finisce così, senza grande entusiasmo. Nella performance Love Power Supreme, svolta a giugno, esibita in forma di video fra le prime opere del percorso di visita, Fabre rende omaggio ai suoi maestri, baciando una per una le opere, scegliendo fisicamente gli oggetti della propria attenzione e reinterpretazione, dopo averli studiati per anni. La personificazione di Anversa, e l’autoritratto di Rubens nelle sembianze di Dioniso-Bacco, hanno un ruolo fondamentale, e sono anche i temi di fondo esplorati da Fabre, insieme con l’inclusione nella vita soprannaturale ed estetica, di animali, insetti, piante, e donne che non siano espressioni astratte del potere.
Di entrambe le città, e di tutta la loro estetica, l’artista ha esaltato il carattere di accoglienza, di bellezza e di speranza disperata, di utopia. Nonostante le condizioni, – ricordate le Pussy Riot finite in Siberia per aver cantato una canzone? – e nonostante il fatto che la mostra sia stata vietata ai minori di sedici anni, nulla è stato impedito dal museo, e nulla risulta limitato. Anzi, ha dichiarato Fabre, la libertà creativa concessa da Mikhail Petrovskij, direttore dell’Hermitage, è stata superiore a quella del Louvre. Dimitri Ozerkov, curatore che ha già allestito la sezione russa di Documenta e di Manifesta, ha cercato di seguire il più possibile le esigenze di Fabre nel lavoro delicato di posizionamento delle proprie opere e ri-posizionamento dei lavori della collezione permanente del museo, per fare in modo che la chiosa e la voce fossero leggibili, accurate, impeccabili. E in definitiva il pregio di tutta l’operazione è che nonostante il gran numero, la vistosità e non certo leggerezza di alcuni dei pezzi originali di Fabre, – come gli autoritratti di bronzo dorato, gli animai imbalsamati e ricoperti di scarabei verde malachite, – si fa quasi fatica a vedere le opere di Fabre tra quelle dei maestri, fra cui le prime si disperdono per aderenza al motivo estetico, e non per forma. Questa è la vittoria messa a segno da una rilettura profonda, autentica, originale, biologica più che biografica, dell’arte fiamminga nella prima parte della mostra. Il percorso espositivo è pensato per essere fruito da punti di inizio multipli, data la vastità imponente del museo e i diversi possibili ingressi, e lo scopo generale è questo platonismo per paradosso, ottenuto parlando del particolare per generare una comprensione profonda e universale.
La strategia per ottenere lo scopo è partire sempre da qualcosa di estremamente concreto, da un dettaglio, un piccolo tema figurativo, erroneamente ritenuto una decorazione e un emblema, per sviscerarne il senso e fare una storia naturale dell’arte. In questo la fedeltà ai maestri è completa, dato che la ritrattistica fiamminga è stata la prima a includere fin dal Trecento donne-mercanti, donne nell’atto di lavorare, vivere e festeggiare, ed è ottenuta per un processo che va oltre l’emulazione, attraverso un’appropriazione fisica del lavoro e una sua rimessa in scena, in vita, in opera, in esercizio.
Il tema della figurazione e trasfigurazione animale è l’oggetto dell’esplorazione e traduzione contemporanea della sala Snyders, con l’inclusione del cigno, omaggio a un rarissimo cigno di stoffa e pelli, parte della collezione preistorica dei popoli siberiani Skiti, conservata nel museo e rarissima. Il cigno, ricostruito da Fabre, oltre a apparire come segno di grazia divina nei dipinti dei maestri del Seicento, è anche un animale votivo dei popoli preistorici siberiani; una traduzione materiale del pensiero che l’arte è sempre contemporanea.
La natura morta nelle mani di Fabre diventa mosaico di sostanze e di corpi, letteralmente. Anche in questo processo Fabre racconta di non aver fatto altro che mettere in scena un atto primario del dipingere. Per fare i colori, il rosso, il marrone, i maestri del Seicento usavano sangue animale misto a terre più o meno crudi, per fare il bianco utilizzavano sostanze minerali, metalli, ossa frantumate. I suoi disegni diventano allora sculture rimodellate su sagome metalliche dove sono incastonate sezioni di ossa umane, puntine da disegno, scarabei e insetti.
La seconda parte è invece allestita nella sede dello Stato Maggiore: in questo spazio, dedicato interamente alle opere del XX e XXI secolo, Jan Fabre continua il suo gioco vertiginoso attraverso il tempo, dedicando una serie di disegni per chiosare l’opera di Ilya e Emilia Kabakov, The red wagon – Il vagone rosso, del 1991. Se i Kabakov hanno messo in scena le delusioni della Storia, Fabre ha incarnato la microstoria, la relazione di amicizia intima e collaborazione fra artisti, raccontata attraverso disegni, senza cornice su cartoncino grigio, come omaggio al modus operandi degli artisti russi.
Le altre opere in mostra nelle sale dello Stato maggiore, – fra cui Scissors, due scale cieche opposte contenute in due scatole blu, quindi impossibili da scalare, e due installazioni che riportano nello spazio dell’arte contemporanea all’interno delle installazioni le opere dei maestri fiamminghi, – sono opere dedicate allo spirito dell’utopia. Il bello di invecchiare, dice Jan Fabre, è che man mano che il tempo passa, sono sempre meno rivolto alle condizioni esterne al mio lavoro, e sempre più concentrato su quello che veramente è più urgente per me, per la mia interiorità. E infine, dichiara, il tema di tutti i miei lavori nei grandi musei, è che non esiste arte antica e arte contemporanea, esiste solo arte buona oppure arte cattiva. E l’arte buona è quella in cui l’etica e l’estetica trovano una sintesi perfetta. E questo forse è proprio il significato della vitalità per come la intende Fabre, e la vita di ciascuno se ben vissuta, è un’opera d’arte. Un vero maestro è fra noi. Se vi interessa sapere cosa farà in futuro, la notizia è che sta preparando un lavoro per la prossima Biennale Arte a Venezia, dedicata al tema delle ossa e della vanitas. Mentre il prossimo artista ospite dell’Hermitage sarà Anselm Kiefer.
Irene Guida