21 febbraio 2017

FUS, che?

 
È un sistema sbagliato all’origine. Perché il denaro elargito dal Fondo Unico per lo Spettacolo arriva solo a quei soggetti già forti. Ed esclude le realtà minori

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Il FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) è lo strumento per eccellenza attraverso il quale lo stato finanzia l’offerta culturale italiana, legata al mondo dello spettacolo. Ma fino a che punto il FUS realmente incide sulla produzione teatrale e soprattutto fino a che punto i contributi concessi riescono effettivamente ad essere distribuiti tra i vari teatri del territorio nazionale?
Nel 2016 i contributi del FUS hanno riguardato: 7 teatri nazionali (13.766.196 euro); 19 teatri di rilevante interesse culturale (16.121.232 euro); 160 imprese di produzione teatrale (17.483.645 euro) e poco più di 30 centri di produzione teatrale (11.505.825 euro). Sempre nello stesso anno, ai circuiti regionali sono andati 222.558 euro, agli organismi di programmazione 657.199 euro e a festival e rassegne 641.369 euro.
Nel 2015, invece, i finanziamenti al settore prosa hanno riguardato 303 progetti e sono stati pari a 63.100.000 euro. I teatri nazionali avevano ottenuto 13.500.000 euro, mentre quelli di rilevante interesse culturale 15.700.000 euro. 
Teatro San Carlo, Napoli
Proprio questi numeri sembrano evidenziare quanto il Fondo Unico per lo Spettacolo sia una vera e propria “manna dal cielo” per poco più di 200 organismi attivi nell’ambito teatrale (escludendo i circuiti regionali, gli organismi di programmazione e i festival), mentre non contribuisce in nessun modo alla sovvenzione di altre organizzazioni e teatri che non riescono a rientrare nei requisiti minimi previsti per legge. Sembra quasi una riproposizione in chiave teatrale della disuguaglianza esistente all’interno della società americana e denunciata tramite lo slogan “We are the 99%”. In Italia, infatti, la maggior parte delle istituzioni e dei teatri ha a disposizione solo una misera parte di contributi pubblici (e molto più spesso nemmeno quella).
Probabilmente le prerogative, stabilite dal decreto del 2014, per individuare le strutture e gli enti meritevoli di finanziamenti avevano una motivazione che si potrebbe definire quasi “messianica”: il tentativo di limitare le “rendite” fisse e di incentivare la ricerca di nuovi stimoli imprenditoriali e di innovazione. Grandi opportunità di riflessione e di sviluppo si sono, infatti, aperte nell’ambito dell’audience development e nel campo della promozione di un’offerta teatrale capace di sperimentare e di trovare nuove soluzioni espressive. Purtroppo, proprio gli organismi teatrali più massicci (e di conseguenza riconosciuti come teatri nazionali e tric) sono quelli che hanno continuato (e continuano) a ricevere i finanziamenti (e pertanto sono meno stimolati ad innovare i loro modelli di business).
Teatro Studio Milano
La stretta sui finanziamenti, operata dal pubblico, più che risolvere il problema dei contributi “di prestigio”, ha completamente dimenticato (e con un pizzico di malizia verrebbe da chiedersi il perché) tutte quelle esperienze a carattere locale, come i piccoli teatri comunali, le organizzazioni che operano nelle periferie e nelle zone più difficili, oppure le iniziative dal basso, che stanno diventando non più un’eccezione del sistema di offerta culturale, ma una sempre più frequente opportunità di rigenerazione e di recupero di un quartiere, di una città o di un territorio. 
Se, infatti, l’Italia è generalmente riconosciuta come un Paese fondato sulla piccola-media impresa, sulle realtà locali che sanno porsi come centri di innovazione e di sperimentazione, allo stesso modo il tessuto vivo e pulsante delle industrie culturali e creative è formato da piccole e medie organizzazioni che spesso non hanno le caratteristiche necessarie per accedere ai contributi pubblici concessi dal FUS. 
Teatro Carlo Felice, Genova
È molto triste constatare che la stessa pubblica amministrazione, che usufruisce di studi e statistiche sulle imprese italiane (e quindi anche su quelle culturali e creative impegnate nel settore teatrale), impieghi un modello di finanziamento, il FUS, che, nella stragrande maggioranza dei casi, non rispecchia la realtà del sistema teatrale italiano. Quest’ultimo è composto in prevalenza da organismi che certamente non riescono a rientrare nei canoni previsti per ricevere il finanziamento pubblico, ma che potrebbero usufruire di una più favorevole misura di sostegno basata su incentivi fiscali. Tali operazioni sarebbero un ottimo incentivo per garantire un incremento iniziale degli introiti, che, attraverso un aumentato afflusso di investimenti grazie alla diminuzione del carico fiscale, potrebbero infondere nuova linfa al settore ed ampliare le possibilità di impatto sul territorio. 
Stefano Monti

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