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Esistono due, tre, tante Venezia in laguna. Ciascuna si muove con una propria velocità, con ritmi, suoni e immagini differenti. Vi è la Venezia caotica di San Marco e Rialto, dove fiumi di turisti si muovono spaesati e affascinanti tra i meandri di una città tanto particolare da apparire un non-luogo. Poco distante vi è la Venezia della Biennale, tra Giardini e Arsenale, fatta di specialisti e appassionati d’arte contemporanea, un turismo più interessato e silenzioso. Di fronte è la Giudecca, un’altra Venezia, sospesa tra dimensione paesana – con signore che parlano alla finestra in puro veneziano mentre stendono i panni tra un palazzo e l’altro – e occasionali ondate di turisti approdate per visitare la grande mostra di turno. Infine vi è la Venezia più quieta, non distante dalle altre eppure assai diversa, quasi eremitica, di contemplazione e solitudine. È la Venezia dell’isola di San Servolo, in gran parte occupata da giardini in cui è possibile sostare, leggere, studiare, riflettere. Qui, immersi nel verde, entro corpi di fabbrica che di tanto in tanto si manifestano allo spettatore è allestita la mostra “Mambor Trasformatore”, a cura di Alberto Dambruoso, organizzata in occasione della 57ma Biennale.
Una mostra diffusa, divisa in tre aree, ciascuna deputata a rappresentare un particolare aspetto del lavoro dell’artista, tra gli indiscussi protagonisti del secondo novecento italiano. Parte attiva nei primi anni Sessanta della Scuola romana di Piazza del Popolo insieme a Schifano, Angeli, Festa, Tacchi e pochi altri, Renato Mambor (Roma 1936-2014) ha attraversato per intero il decennio partecipando al clima di rinnovamento dell’arte dopo il periodo Informale e recitando un ruolo di primo piano anche come performer. Dopo aver inizialmente preso parte al clima concettuale tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta (è invitato anche alle prime mostre dell’Arte Povera), si dedica per lungo tempo al teatro d’avanguardia per ritornare all’attività espositiva a metà degli anni Ottanta, proseguita fino alla sua scomparsa con importanti riconoscimenti in Italia e all’estero.
Renato Mambor, Il viaggiatore, 1995
Già presenti nel 2014 alla mostra “Back to the Stars”, ordinata in occasione della Biennale di Architettura, le opere di Mambor tornano oggi a San Servolo in un’esposizione che oltre al genio creativo, rivela la significatività del suo lavoro capace di coniugare l’approccio concettuale all’euforia e alla spensieratezza del colore di matrice pop senza per questo sottostare alla massificante egemonia dell’oggetto, da cui anzi rifuggiva. Il titolo – che pure riecheggia altre personali come “Mambor osservatore” (Palermo, 2002) e “Mambor campionatore” (Mantova, 2014) – già rivela l’ambizione di mettere in luce il fare poliedrico dell’artista, la sua straordinaria abilità nel combinare e trasformare mezzi e materiali, così come le sue eccezionali capacità relazionali e interpretative. Il percorso parte dalla Manica lunga (Area A) dove sulle pareti del lungo corridoio sono affrontati Diario degli amici del 1967 e Diario del 2007. Un passaggio tra ieri e oggi, o meglio tra passato remoto e passato prossimo, estrema sintesi di un percorso eccellente senza flessioni né pentimenti. Diario degli amici in particolare è un’opera corale composta da più tavole della stessa grandezza su cui Mambor è intervenuto in collaborazione con gli amici artisti, da Pino Pascali a Mario Ceroli, da Cesare Tacchi ad Alighiero Boetti, da Paolo Icaro a Fabio Mauri. Un lavoro collettivo che rivela l’interesse di Mambor per i procedimenti creativi e più in generale per la vita, quella stessa vita che nel Diario del 2007 fluisce libera in un susseguirsi di azioni che l’artista reinterpreta con attitudine velatamente concettuale, affiancando la parola-titolo ad oggetti e immagini, alla presenza di una pesante sagoma necessariamente atteggiata. Ed è proprio la sagoma, delineata o ritagliata, statica o in movimento, monocroma o colorata, isolata o ripetuta, l’indiscussa protagonista dei lavori presenti nel Padiglione Grecale (Area B), eseguiti tra gli anni Sessanta e i Dieci del Duemila. Una vera è propria firma iconica, in cui la silhouette dell’artista sembra elevarsi ad emblema categoriale, strumento attraverso cui, come ha asserito Achille Bonito Oliva, Mambor ha tentato di “catturare l’attimo fuggente della vita”. Ed è la vita, movimento e attitudine, continuo divenire ed esperire, che ancora una volta trapela dalle suggestive Azioni fotografate realizzate tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, esposte a conclusione della mostra nel Padiglione Libeccio (Area C) come segnali di una vicenda artistica di grande valore ma ancora in attesa di una catalogazione generale e di un’ampia antologica.
Carmelo Cipriani