09 ottobre 2017

AVANTI&INDIETRO

 
Conversazione con Adalberto Abbate, sul “Sacrosanctum” diritto di fare arte. A Palermo
di Raffaele Gavarro

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Il secondo appuntamento di “Avanti&Indietro” è con Adalberto Abbate, nato a Palermo nel 1975, dove vive. Come leggerete una scelta non solo esistenziale, ma che s’intreccia fortemente al senso del proprio lavoro. 
Cominciamo dalla tua città. Com’è oggi vivere a Palermo e perché hai deciso di non emigrare? Questa prima domanda, lo dico per chi ci legge e non conosce molto del tuo lavoro (ancora), non è una banale provocazione, ma credo sia il viatico migliore per tracciare un perimetro all’interno del quale c’è non solo la tua ricerca artistica, ma anche il tuo impegno sociale e politico.
«Palermo è la mia città da sempre. È il mio cuore, la mia memoria, il mio intestino. Palermo è da dove osservo il mondo mantenendo chiari e distinti i limiti dalle distanze, come le parole dai fatti, ma non i sogni dalla realtà. Ho visto questa città cambiare molte volte, anche se per fortuna non ha mai assunto una forma modellata esclusivamente sui desideri contemporanei, e anche quando si sporca di presente non puzza mai di finzione. Amo lavorare a Palermo perché sono circondato da realtà semplici e complesse, e perché qui l’arte non segue direzioni obbligate dal sistema. In altre città l’arte si presenta sotto forme prestabilite, in contenitori standard e con quella fascinazione che ti fa perdere di vista le motivazioni più autentiche che ti hanno indotto a farla. Palermo mi ha sempre difeso dalle stronzate contemporanee, dalla moda della cultura, dai presunti mondi nuovi che sono invece tutti uguali, ed è per questo che ho deciso di vivere e lavorare qui». 
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Adalberto Abbate, ITALIENISCHE REISE, 2015, digital collage, printing on pvc, Malkasten Pavilion, Dusseldorf

Come molte città del sud del mondo, Palermo è una realtà complessa, articolata, affatto esente da quei luoghi comuni che in definitiva costituiscono anche la sua migliore difesa, la risposta immunitaria a quella omologazione che ci dicono sia la garanzia per la “contemporaneità”. Una delle operazioni più interessanti che stai conducendo in questi anni in città, con l’aiuto di Maria Luisa Montaperto, è Sacrosanctum nell’Oratorio di San Mercurio. Un edificio tardo cinquecentesco che conserva l’opera prima e più importante di Giacomo Serpotta (1656-1732), e che come capita spesso era stata dimenticata, abbandonata. Un contenitore tutt’altro che standard per l’arte contemporanea, e nel quale state invitando artisti italiani e non a presentare un’opera in dialogo con lo spazio e con quella di Serpotta. Ma il senso più importante di Sacrosanctum mi pare sia nell’azione concreta del recupero di uno spazio e di una cultura, nella richiesta d’intervento rivolta ad una collettività in favore di un’altra collettività. Tra l’altro, e non secondariamente, le offerte economiche libere che fanno i visitatori stanno servendo al restauro dell’Oratorio. Credo che questa si possa senz’altro definire come un’azione sociale, politica, oltre che culturale, che ha anche il merito di restituire un’unità di senso al concetto di arte attraverso il tangibile tenere insieme passato e presente per dare forma e senso al futuro. Un effettivo superamento dell’utilizzo, oggi di gran moda in Italia, degli spazi del passato come suggestive scenografie per l’arte contemporanea.  
«Si è vero, adesso costituisce una vera e propria moda il reimpiego di spazi del passato. Dopo Sacrosanctum, nato nel 2015, ho notato che in molti hanno cominciato ad utilizzare chiese abbandonate o site in contesti suburbani come palcoscenico per esposizioni ed eventi musicali. Ma Sacrosanctum si è discostato sin dall’inizio dalla banale idea di scegliere un posto sacro solo per rendere più suggestive operazioni artistiche e performance musicali. Il fine di Sacrosanctum non è mai stato quello di fare propaganda culturale o di esporre arte contemporanea in un contesto più accattivante, ma è stato prima di tutto quello di avvicinare la collettività al delicato tema della tutela, della valorizzazione dei beni monumentali, della conservazione e della divulgazione della memoria storica, oltre che alla consapevolezza che tutto questo rappresenta un valore culturale ed è e sarà sempre la nostra ricchezza. Sacrosanctum è nato da una mia idea che immediatamente ha trovato la collaborazione di una preparatissima curatrice e storica dell’arte, Maria Luisa Montaperto, il sostegno e la fiducia di Bernardo Tortorici di Raffadali, Presidente dell’Associazione Amici dei Musei Siciliani, e di tutti gli artisti che hanno prontamente aderito. Ma la squadra di Sacrosanctum non finisce qui. Penso anche alle forme di donazioni collaborative che hanno permesso la realizzazione di un libro alla fine della manifestazione, penso al lavoro offerto dalla traduttrice Melanie Flynn e dalla grafica Patrizia Filizzola, che hanno donato il loro tempo e la loro professionalità, alla casa editrice Drago Edizioni e ai tantissimi visitatori, circa 8mila, che hanno generosamente donato. Alla fine della prima rassegna, che ha avuto come protagonisti sedici artisti (Joseba Eskubi, Mario Consiglio, Stefano Canto, Franko B, Lorenzo Scotto di Luzio, Thomas Braida, Luca Pancrazzi, Jota Castro, Sandro Mele, Ciprì e Maresco, Greta Frau, Fabio Sgroi, Caterina Silva, Loris Cecchini, Calixto Ramirez, Francesco Lauretta) e tre performer sonori (Ottaven, Angelo Sicurella, Jonathan Rogerson), siamo riusciti a concretizzare attraverso le offerte dei visitatori alcuni lavori manutentivi, quali la pulitura e il consolidamento degli apparati plastici in stucco di Giacomo Serpotta nei magnifici oratori di San Lorenzo e San Mercurio, la pulitura di alcune cappelle in marmi mischi e tramischi della chiesa del SS. Salvatore, il ripristino dei tessuti damascati dell’oratorio di San Lorenzo e il restauro della scalinata monumentale dell’oratorio di San Mercurio. La rassegna oggi è giunta alla seconda edizione e ha già visto l’esposizione delle opere di Diego Moreno, Antonio Riello e Memed Erdener. Inaugurerà il 30 ottobre prossimo l’intervento site-specific di Sylvie Fleury, mentre a novembre ospiteremo un’opera magnifica di Andrea Di Marco. Spero che Sacrosanctum inneschi una reazione a catena e che gli artisti non aspettino in fila per entrare e mettersi comodi nel sistema preconfezionato dell’arte, che ognuno si carichi di sacrosanto entusiasmo costruendo un proprio sistema, dando forma a una propria cultura, non ufficiale, confrontandosi con altri e nuovi sistemi senza gerarchie di mercato».
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Adalberto Abbate, SELFPORTRAIT, 2011, damaged portrait, 50x60cm, collezione permanente MUSEO GAM, Palermo
Mi pare che l’idea e il lavoro che stai facendo con Sacrosanctum rappresenti l’altra faccia della medaglia della tua ricerca, una specie di completamento. Se riguardo i tuoi cicli, dalle Micro sculptures alle Utopies, passando per Processo Evolutivo Educativo, Catholicism Addiction Disorder, Rivolta, Selfportrait, Build. Destroy. Rebuild., Italienische Reise, prevale la tua vocazione a dissacrare il presente, a lavorare sulle immagini e sui luoghi comuni del quotidiano, ingaggiando battaglia contro quel senso comune che molto spesso determina una quieta accettazione dello stato delle cose. È come se cercassi di introdurre, attraverso le tue rappresentazioni, una consapevolezza politica, di natura critica, direttamente in quei contesti che semplicemente ne sembrano esclusi per antica consuetudine. In Sacrosanctum, di contro e parallelamente, agisci e fai agire gli artisti, le loro opere, in un luogo inedito ma appropriato alla funzione di recupero di una consapevolezza culturale che non può che essere, e non secondariamente, politica. 
«Tutti i miei progetti provengono dalla realtà che vivo e osservo, sono parte di me e della gente che ho attorno. La realtà contemporanea va criticata e come disse Georges Pompidou “L’art doit discuter, doit contester, doit protester”, tutto il presente che viviamo deve essere messo sotto una lente d’ingrandimento ed osservato, analizzato per poter trovare o soltanto immaginare una possibile cura. Sacrosanctum è stato sia un progetto che una cura, un punto d’incontro e di discussione, una possibile direzione diversa. Il mio lavoro è sempre stato politico e penso che lo sarà sempre perché segue il mio modo di reagire alle cose del mondo, alla politica istituzionale, alla storia, a certi giochi frivoli e monetizzati dell’arte, della cultura e dell’informazione ufficiale». 
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Adalberto Abbate, Catholicism Addiction Disorder, 2006, collezione fondazione VAF, Francoforte

Ludwig Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche (1953), al paragrafo 301 dice: “Una rappresentazione non è un’immagine; ma un’immagine può corrispondere a una rappresentazione”. È un’affermazione che da anni ha creato un piccolo vortice di domande nella mia testa, tanto da aver deciso di usarlo come incipit del nuovo saggio al quale sto lavorando. Continuo infatti a chiedermi quando e come una rappresentazione non è un’immagine(?), e ovviamente quando e come un’immagine può, ma evidentemente anche no, corrispondere a una rappresentazione(?). Se caliamo queste domande infatti nel nostro specifico dell’arte, beninteso dell’epoca digitale nella quale siamo, la questione si complica ancora di più, se possibile, rispetto al contesto del giuoco linguistico che com’è noto è il principale oggetto della riflessione di Wittgenstein. In particolare mi sembra che quel paragrafo acquisti un’ulteriore complessità se riferito alla sempre più chiara esigenza dell’arte attuale di coniugarsi alla politica. Se non altro per quella contiguità che si stabilisce giocoforza con la cronaca, nella quale il rapporto tra immagini e rappresentazioni si fa oltremodo ambiguo.  La nonnina che prepara i biscotti a forma di svastica della tua serie Processo Evolutivo Educativo (2003/4), o la Bibbia con pallottola inclusa, uno dei tuoi lavori di Catholicism Addiction Disorder (2006), o anche i ritratti sfondati di Selfportrait (2011), sono immagini che corrispondono a rappresentazioni che inquadrano aspetti di una quotidianità che si dischiude alla complessità del politico e che la superficie opaca dell’abitudine ci impedisce di vedere.
«Un’immagine è stata, e forse può ancora essere, la rappresentazione di un’infinità di aspetti della realtà oggettiva, ma naturalmente è stata, e forse può ancora essere, la rappresentazione di entità o di concetti astratti, come anche del niente, del nulla assoluto. Però, e lo so che sembra un paradosso nell’epoca digitale in cui siamo, mi sembra che le immagini, e quindi le rappresentazioni, non siano più in grado di descrivere la storia che viviamo contribuendo così alla costruzione della memoria. La realtà oggettiva si sta decomponendo e le immagini, come le rappresentazioni, che io non riesco a separare tra loro, descrivono una realtà altra, ambigua e sempre più falsata. Cosa sia questa realtà sinceramente non riesco ancora a capirlo. A questo proposito posso affermare che le mie immagini, le mie rappresentazioni, sono essenzialmente un tentativo di andare a ritroso per cercare di comprendere il passato, di volta in volta individuando quel qualcosa che ha indotto al malessere che sta condizionando la contemporaneità, quello stare sempre nel presente e che di sicuro ci sta impedendo di immaginare il futuro. Per questo penso che l’arte sia in contraddizione con il resto che ci circonda, proprio perché essa non può che stare simultaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. Naturalmente solo quando accade questo l’arte si coniuga alla politica fuori dai condizionamenti della cronaca. Non è facile, ma io credo sia possibile. Ma fosse anche solo per questa ragione, per questa possibilità, tutti dovremmo sempre tentare di proteggere l’arte, mettendola a riparo dalle banalità del mercato e delle logiche speculative neoliberiste, cercando sempre e strenuamente nell’opera quel qualcosa che può dirci cose che sono oltre quello che vediamo. Naturalmente è un’ipotesi che non trova così di frequente conferma. Come naturalmente è altrettanto vero che c’è ormai uno stato di tale assuefazione alle immagini, al loro apparire e scomparire, che l’impresa appare disperata da entrambi i punti di vista. Mi capita ormai spesso di pensare che stiamo vivendo un vero e proprio disastro, un grandioso disastro, che ha avuto principio proprio nella cultura e direi soprattutto in quella visiva».
Sono d’accordo con molte delle cose che dici, e mi hai fatto venire in mente le parole con le quali Edgar Morin conclude il suo recente saggio Sette lezioni sul pensiero globale: “Viviamo l’inizio di un inizio”. Cosa sia e come sia quest’inizio di un inizio(?), è solo la prima delle molte domande che induce quell’affermazione così appropriata quanto suggestiva. Ma sono convinto, ovviamente con Morin, che le risposte siano tutte da ricercare attraverso un processo di comprensione della complessità nella quale siamo, e che tutti contribuiamo a realizzare. Anche se prima di tutto bisogna riconoscere che il concetto di complessità si pone in inevitabile antagonismo verso quella che è la netta tendenza alla semplificazione del sistema antroposocioculturale nel quale siamo. Partendo dalle tecnologie digitali, dal loro uso e dalle conseguenze che riguardano praticamente tutti gli ambiti del quotidiano, e non solo, la semplificazione è l’imperativo che domina le dinamiche del tempo e del mondo in cui agiamo. In alcuni casi assume una vera e propria forma ideologica le cui parole d’ordine sono rapidità decisionale, azione ed effetto immediato, ovviamente opponendosi, fino a giungere alla denigrazione, a tutto quello che imponga analisi riflessive e valutazioni più articolate e che abbia un qualche riferimento al passato con relativa capacità esemplificativa, o che peggio proietti sul futuro esiti dubbiosi o anche solo ambivalenti. La tendenza alla semplificazione è evidentemente figlia da una parte del “presentismo”: corrispondere al presente significa agire in esso completamente e con la rapidità richiesta; ma è dall’altra, componente ideologica essenziale del neoliberismo, economico e di conseguenza politico. Istintivamente penso all’arte come naturalmente antagonista al presentismo e al semplicismo, e quindi alle logiche neoliberiste, anche se delle volte temo che questa possa essere solo un’affermazione di principio, o peggio un’illusione.
«Anche se fosse un’illusione, bisogna crederlo possibile».
Nonostante la moda imperante della distopia, anche io continuo a preferire l’utopia.

Raffaele Gavarro

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