04 dicembre 2017

Cosa rimane del colosso? Note dall’ultimo giorno di Damien Hirst alla Fondazione Pinault

 

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“Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, ultima, grande retrospettiva di Damien Hirst, nato a Bristol 52 anni fa, si è conclusa il 3 dicembre ed è certo che molti, attratti dalla fama mondiale di questo artista controverso e irriverente oltre che dal fatto che le sue opere sono tra le più quotate, l’abbiano già visitata nel tentativo di capire qualcosa in più sull’arte contemporanea. La personale, a cura di Elena Geuna, in otto mesi di apertura, dall’8 aprile, è stata visitata da circa 360mila visitatori, di questi il 51% al di sotto dei 45 anni di età. Grande afflusso da parte dei visitatori veneziani, che hanno goduto del giorno settimanale di gratuità a loro riservata, con circa 17mila ingressi in 35 giornate. Diffusione estesa anche sul web, con la colossale Demon with Bowl che è stata l’opera più fotografata e condivisa sui social network. I contenuti dedicati a #DamienHirstTreasures che hanno generato sui canali social di Palazzo Grassi e Punta della Dogana oltre 21 milioni di visualizzazioni, più di 9 milioni di interazioni e sentiment positivo del 96%. 
In quest’occasione l’abile dirottatore di verità e di mercato ha deciso di mettere in mostra 189 oggetti recuperati dal fondo del mare, grazie al ritrovamento da parte di alcuni archeologi nel 2008 di un antico vascello, datato tra la fine del I e gli inizi del II Secolo dopo Cristo, che avrebbe dovuto trasportare le ricchezze accumulate da uno schiavo liberato, Cif Amotan II, alter ego dell’artista. Il percorso di recupero e di restauro degli oggetti esposti viene accuratamente descritto lungo l’esposizione, che per la prima volta si estende in entrambi gli spazi della Fondazione Pinault, per un totale complessivo di 5mila metri quadri di spazio espositivo, tra Palazzo Grassi e una Punta della Dogana abilmente rinnovata grazie uno splendido intervento di Tadao Ando
Fotografie, video, didascalie e sculture, in cui l’estetica pop si mescola con elementi antichi che richiamano divinità egizie, greche ed induiste, compongono il percorso. Anche i materiali impiegati ricreano la stessa dialettica, così il bronzo e l’oro vengono mescolati con l’acciaio e i LED, mentre personaggi Disney o del mondo dello spettacolo di oggi vengono reinterpretati con caratteri che richiamano il mondo dell’antichità e del mistero. Un percorso, quindi, che ci spinge a numerose domande. Prima di tutto, se quello che stiamo vedendo sia vero o sia un gioco dell’artista perfettamente studiato, che parla di schiavitù e di libertà, di contemporaneità e di memoria, di passione e di amore per l’arte, la stessa che, in questa esposizione, viene a tratti declassata e ridicolizzata, magari con l’obiettivo di denunciare molti dei complessi meccanismi che regolano il mondo dell’arte contemporanea. 
L’impressione che se ne ha, è che Hirst abbia rinunciato, consapevolmente o meno, a qualsiasi dimensione mistico-allusiva, per promuovere una manovra di mercato e trasformare l’arte in evento. Si potrebbe concludere con una citazione dal mondo greco antico, nel tentativo di fare quello a cui Hirst sembra essersi poco interessato, ovvero distaccarsi dal mondo estetico-sensoriale per abbracciare una verità più nascosta e più profonda. «L’essere è e non può non essere», scriveva Parmenide. Il non essere è inconsistente e, quindi, impensabile, dunque non può che essere negato. Hirst ci propone una mostra d’effetto che passerà alla storia suggerendoci che anche l’impensabile può diventare arte o realtà. Too easy to be true. (Rachele Lombardo)

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