20 dicembre 2017

Jim docet

 
L’arte serve a domandarsi cosa sia la realtà. E l’artista è il medium. Note a margine intorno a una serata speciale su Netflix, con Carrey e Kaufman a fare da guida

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Visto su Netflix, brilliant direbbero gli inglesi. In una lunga intervista inframmezzata da spezzoni del back stage, Jim Carrey ci racconta come è andata sul set di Man on the Moon, il film del grande Milos Forman su Andy Kaufman. 
Andy è l’anti-comico americano per antonomasia, morto giovane a metà degli anni ’80.
Un personaggio meravigliosamente perso e goffo, un sognatore tenero dalla voce di bambino ed enormi occhioni azzurri, che del barzellettaro televisivo non aveva proprio nulla. Era piuttosto un depresso con un enorme sense of humor, un depistato, decisamente un surrealista. 
Jim Carrey, attore che ha girato alcuni film culto come Truman Show o Eternal sunshine of the spotless mind [tradotto in italiano come Se mi lasci ti cancello n.d.r.] qui ci racconta come ha creato se stesso, come ha creduto in se stesso, mostrandoci anche spezzoni dei suoi primi spettacoli, di stand-up comedy fino all’arrivo da Oprah e oltre, ispirandosi da sempre a Andy Kaufman. Perché lui e Andy, in comune, avevano il senso di sconfinare in continuazione dalla fantasia alla realtà, dalla fiction al telegiornale, dal mondo inventato a quello vissuto. E a me proprio questo continuo sconfinamento interessa, questo cancellare i confini e saltare da un canale all’altro, in maniera prima impercettibile e poi molto marcata, trovarsi sull’orlo di un precipizio e chiedersi dove sono, creando un spaesamento molto vicino all’arte visiva e alla performance.
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Jim & Andy
Tutti ci chiediamo in continuazione dove sta il confine,  mentre creiamo. Jim Carrey ci parla proprio di questo e dell’impersonazione, quasi fosse una sorta di possessione. 
Partiamo dall’inizio. Forman non lo voleva Carrey come interprete, ma lui non si è arreso. 
E così un ragazzone moro, atletico e alto quasi due metri, gira un provino in cui diventa un ragazzo cicciotto, arruffato, neanche tanto alto, al seguito di due occhi immensi e inquisitivi e lo spedisce al regista. Ci sonno tutte le migliori gag di Andy Kaufman: il playback accanto al giradischi, le poesie al Saturday Night Live, lo straniero schizofrenico Latka della sitcom Taxi, i travestimenti da Elvis. Forman non ha avuto scelta e non aveva idea dello spettacolare guaio in cui si era cacciato. 
Perché Jim Carrey ha studiato tutto il materiale sul comico, che, siamo certi, già conosceva a memoria; frequentato parecchio i suoi familiari, e di fatto è stata una terapia di famiglia; studiato con Bob Zmuda, amico e collaboratore storico di Kaufman, nonché secondo impersonatore di Tony Clifton, l’alter ego del comico, cui è dedicato il sottotitolo. Tony è uno splendidamente laido cantante di Las Vegas, baffuto schifoso e caustico, che spesso apriva e chiudeva gli spettacoli di Andy.
Questa preparazione ossessiva ha fatto in modo che Carrey entrasse nel personaggio e non ne uscisse più. Per tutto il tempo delle riprese. Mesi. Prima e dopo ogni ciak, a pranzo, a cena, a colazione, a casa e fuori, con il regista, il cast, i tecnici, i giornalisti e chiunque gli si avvicinasse. E qui lui si chiede – e noi con lui – cos’è la performance? Che cos’è la vita dell’artista? Chi è Andy? Dove finisce lui e dove inizio io? 
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Jim Carrey, Milos Forman, Man on the Moon
Jim dice di essersi messo a disposizione di Andy, di aver fatto esattamente quello che voleva e per lui è stata un’esperienza assolutamente liberatoria, anche se dopotutto era responsabile di se stesso. Per esempio quando ha provocato Jerry Lawler, il wrestler che già aveva rotto il collo a Andy, finché ha rotto il collo anche a lui, terrorizzando il regista, lo stuntman rimasto senza lavoro, gli avvocati degli studios e quelli di Lawler. 
Quanto costa la fantasia fatta realtà? Chi sta recitando?
Poi Andy muore. La domanda precisa che Jim Carrey si fa è: se una volta che hai raggiunto il successo e scopri che per te è tutto come prima, che il mondo ti pare sempre un postaccio o tu sei comunque triste – forse un po’ di più di prima – come fai a smettere? Un bel cancro ai polmoni. E tutti sul set piangono. Come agnellini. La famiglia Kaufmann daccapo, Zmuda e gli attori di Taxi, distrutti. Nemmeno Jim ci può credere, però si rende conto, è l’unica via d’uscita, perché Andy ha invaso la sua vita, i giorni, le notti, le relazioni. Sono molti i momenti in cui Forman si trova a scongiurare Jim/Andy/Clifton di assecondarlo e non tutte vanno bene. È un continuo compromesso, non si sa quando comincia e quando finisce, poi Andy la vuole rifare ancora una volta, ancora una volta, ancora una volta.
E io credo che in questa confusione consista il lavoro dell’artista. Nel mettere in atto una trama fitta in cui realtà e finzione si fondono e mettono in discussione la rappresentazione del presente, che ne confondano i confini: al cinema, a teatro o in una mostra, il senso è lo stesso. L’arte serve a domandarsi cosa sia la realtà. E l’artista è il medium. Jim docet.
Marcella Vanzo

Jim and Andy, the great beyond. Featuring a very special, contractually obligated mention of Tony Clifton, Netflix, 2017

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