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La terza conversazione di “Avanti&Indietro” è con Renaud Auguste-Dormeuil, nato a Parigi nel 1968. Dopo essere stato in residenza a Villa Medici nel 2011, Renaud ha deciso di vivere per lo più a Roma, pur mantenendo una base a Parigi. Scelta singolare, si dirà, vista la tendenza contraria che domina i desideri, spesso agiti, di molti artisti romani (e italiani). Ma guardare Roma attraverso gli occhi di chi arriva da luoghi diversi è spesso un’opportunità per capire meglio questa strana, meravigliosa, difficile città.
E iniziamo dunque da qui, da Roma, dov’è in corso la tua mostra al Macro Testaccio. Vivi nell’antica terra dei Quiriti da circa quattro anni e oltre le evidenze della sua bellezza e le criticità non meno evidenti, mi hai spesso parlato di quanto la qualità umana dei romani fosse stata decisiva per la tua scelta. In generale motivazioni di questa natura non sono tenute in grande conto dai diversi attori del mondo dell’arte, guidati nelle scelte da ben altre ragioni e ambizioni.
«Come sai bene la maggior parte degli artisti cerca di vivere in città più economiche e con una buona disponibilità di spazi. E quindi molto spesso si spostano, migrano, per motivi economici. Questo significa che cambiare città non è proprio una scelta, ma appunto una necessità. In questi ultimi anni molti artisti hanno scelto di andare a Berlino o a Bruxelles, a Valencia o a Lisbona. Io per diverso tempo sono stato tentato da Atene, e Roma ad un certo punto mi è sembrato un buon compromesso, a metà strada tra Parigi e la Capitale greca. Mi trovo al centro di una linea geografica e culturale significativa per la mia vita e per il mio lavoro».
Renaud Auguste-Dormeuil, Les collectionneurs Rome, 2016, stampa a colori lambda, cm 30 x 45
Riprendendo il titolo della tua mostra al Macro, che è anche la scritta realizzata con luci al led che ogni tanto volteggia nello spazio del padiglione 9A, e che hai dichiarato come espressamente dedicata a Roma, davvero pensi che fin qui va tutto bene? Quali sono le tue impressioni della città e della cultura che vi si produce?
«”Jusqu’ici tout va bien” è tanto una dichiarazione quanto una minaccia sottilmente velata. Mi è sembrato adatto per la mostra al Macro e anche per la città. Ma quello che è davvero importante è che durante il volo del drone con la scritta, tutto inizia a tremare, a essere traballante. Una caduta e lo schianto del lavoro sono possibili in qualsiasi momento. Mi piace questa fragilità e il possibile incidente che può accadere in qualsiasi momento del presente. Questo lavoro è una sfida alle leggi della meccanica e all’ambiente nel quale si è».
La mostra che hai realizzato al Macro ha come tema di fondo il tempo, e in più di un’occasione hai parlato di quest’ultimo in termini politici. Sono due questioni, quella del tempo e quella della politica, sulle quali come sai rifletto e lavoro molto, e quindi mi piacerebbe che ci parlassi di come relazioni le due cose.
«Non penso di poter rispondere in modo teorico alla tua domanda. Il mio approccio infatti è puramente intuitivo. Prima di tutto, sento molto l’importanza di pormi domande sul fatto se siamo noi che stiamo attraversando il tempo o se è il tempo che passa attraverso di noi. Senza mai rispondermi (e non voglio rispondermi!), questa domanda mi permette di essere disinibito di fronte al mondo dell’arte, della scienza (fisica o sociale) e della politica. A proposito di quest’ultima, in effetti mi sono reso conto che c’erano due modi per contare il tempo. Il primo è il “conto alla rovescia” che è usato in modo esaltato e coercitivo da coloro che detengono il potere. Pensa al lancio di un razzo o di una bomba, si conta il tempo: 10, 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2, 1, fuoco. Ma dall’altra parte ci sono quelli che contano il tempo del dramma: un momento, un’ora, un giorno, un anno, ecc.. Si parla allora di memoria e di lesioni. Questo modo di contare è di quelli che non detengono il potere, ma che lo subiscono. Il mio lavoro non illustra questa idea, piuttosto è il tentativo di districarmi, o meglio di dissociarmi, da queste modalità di computo, realizzando opere che si rifiutano di prendervi posto e di assumere un ruolo conseguente.Un’opera come quella del drone ha la pretesa (mi sembra) di rendere vivo il momento presente: un evento, un’immagine unica, inattesa e singolare che invita a stare dentro il presente».
Renaud Auguste-Dormeuil, Spin-off – Jusqu’ici tout va bien, 2017, drone, scritta luminosa, cm 250 x 110, courtesy: ArteeAltro (Roma), foto di Luis Do Rosario
Pensi che stare dentro il presente sia la soluzione? Non è proprio questo che ci sta accadendo in un quotidiano in cui le nuove tecnologie impongono uno stare nel presente come modalità di sopravvivenza
e che non di meno sta determinando, come inevitabile conseguenza, un depauperamento del passato e del futuro?
«Il problema di cui stai parlando riguarda la nostra attualità. Ma anche se oggi tutto può essere filmato nell’immediato dalle telecamere di sorveglianza o dagli smartphone, rimane il fatto che comunque noi siamo spettatori d’immagini che sono successivi agli eventi. Lo stesso vale per le immagini della morte: i media o l’arte in generale mostrano cadaveri per parlare della morte. Siamo dunque nella produzione di immagini che sono post mortem. Io, al contrario, sto cercando di tornare indietro nel tempo, per provare a produrre immagini che si riferiscono al momento precedente agli eventi, al fine di capire chi e come organizza le notizie e i traumi delle nostre vite. Questa ricerca non è necessariamente una messa in discussione del potere. È piuttosto una riflessione su cosa sia l’esercizio del potere».
L’istante prima dell’evento è il soggetto del tuo ciclo che va sotto il titolo di The Day Before. Dodici pannelli neri sui quali sono impresse altrettante mappe stellari un minuto prima che quello stesso cielo diventasse poi testimone di un evento drammatico, un bombardamento, di cui sarebbero state vittime popolazioni civili inerme. Sotto i cieli ci sono le indicazioni: The Day Before_Guernica_April 25, 1937_23:59, The Day Before_New York_September 10, 2001_23:59, e così via. È la rappresentazione degli orrori della guerra e della morte senza la presenza di cadaveri e iconografie ad essa direttamente riconducibili. Ma è anche la storia prima della storia, l’immagine di un pre che se non annulla il post, è però capace di creare una sospensione, uno spazio inevitabilmente destinato alla riflessione. Ma a proposito dell’esercizio del potere appare subito chiaro che esso è sempre l’esercizio di pochi su molti, di tipo coercitivo e teso all’egemonia. Non sembrano esserci alternative.
«Noi siamo perfettamente a nostro agio in un mondo in cui le immagini che guardiamo sono quasi sempre relative a qualcosa che è successo. Di solito è l’immagine di un cadavere a rappresentare la morte, oltre che come fatto, anche come concetto. Ciò che è volutamente inquietante in The Day Before è che ci troviamo invece di fronte a dei cieli stellati, che sono solo immagini di un momento in cui l’ignoranza delle vittime e l’intenzione dei carnefici sono confusi. Certo è un’immagine della morte ma senza cadaveri. Un’immagine bella ma che ci parla della morte. Non credo ci sia alternativa alla situazione che solo pochi decidano della vita e della morte degli altri. Ed è per questa ragione che non volevo dare priorità visiva ai bombardamenti evocati e dei quali conosciamo la portata storica. L’idea è propriamente quella di riacquistare il potere sulle immagini e sulla fascinazione storica che esercitano su di noi, semplicemente ricordandoci che il problema non è il potere ma l’esercizio del potere».
Renaud Auguste-Dormeuil, I Will Keep a Light Burning, Muro Leccese (Italia), cielo del 1 luglio 2117, performance realizzata il 1 luglio 2017, 1000 candele, diam. metri 15, foto di R. Auguste-Dormeuil, courtesy: ArteeAltro (Roma)
Ci sono due cose che deduco da quello che dici. La prima riguarda la bellezza, alla quale tu dai il senso di un riscatto, anche sul potere. La seconda, in parte conseguente, è che questa bellezza sia raggiungibile attraverso le immagini e che ad esse stesse appartenga la capacità di un altro esercizio del potere, in grado in qualche modo di contrastare quello dei carnefici. Non pensi che tanto la bellezza quanto le immagini siano una categoria e degli elementi profondamente modificati, fino ad essere neutralizzati, nel loro senso più proprio, e quindi legato al nostro passato, dalla rivoluzione tecnodigitale e di conseguenza culturale che stiamo vivendo?
«Quello di cui sono convinto è che l’arte non esiste. Se esistesse, avremmo già da tempo prodotto “l’opera d’arte definitiva”. Ma se l’arte non esiste, è altrettanto vero che noi cerchiamo di far credere, e crediamo, alla sua esistenza. Questo mi consente di dire che l’arte è come la religione o il cinema: l’importante è non sapere se la cosa in cui crediamo sia vera in sé, quanto è invece importante il fatto che crediamo in essa! Pensa a Dio: nessuno è in grado di dimostrare la sua esistenza, eppure miliardi di persone nel mondo ci credono. L’arte è come la religione: una storia di credenze (e non di fede). Ciò che mi interessa di più nell’arte non è che possa rappresentare una forma di “redenzione”, ma piuttosto che possa essere uno spazio di riflessione. Un’agorà che consenta a tutti di esprimere gusti, sentimenti e opinioni, di scambiare idee di giustizia o bellezza. L’arte deve avvicinarsi alla parola e non al discorso. Il problema nell’arte non è di sviare il potere o altro, ma di operare una requisizione dei suoi stessi mezzi di produzione. Come in tempo di guerra una fabbrica di acciaio è requisita per fare proiettili, così l’arte deve operare allo stesso modo! Anche la bellezza può (e deve) essere requisita».
Renaud Auguste-Dormeuil, Star Ship, 2014, tessuto, struttura in legno, cm 180 x 280, courtesy : Galerie In Situ – Favienne Leclerc Paris; ArteeAltro Roma
Forte quest’immagine della requisizione di qualcosa che appartiene di fatto al potere da parte dell’arte. Non l’ho mai vista in questi termini. Rappresenta un antagonismo nei fatti e io credo, come molti ovviamente, che la cultura in generale debba sempre essere un avversario, ancorché leale, del potere.
Da qualche tempo mi domando se sia però la bellezza lo strumento migliore da usare per l’arte in questa contrapposizione, sempre tra l’altro se oggi sia possibile definire cosa sia la bellezza nell’arte, e non invece quella dimensione etica e interrogativa che mi pare invece la condizione propria dell’arte di questi anni, il modo grazie alla quale essa sta tentando di riappropriarsi di un ruolo nella società attuale. Se già Paul Valéry nel 1934 si poneva il problema di “modificare meravigliosamente la nozione stessa di arte” in conseguenza alle allora già importanti modificazioni della materia, dello spazio e del tempo, come possiamo oggi, in conseguenza alle molto più impressionanti modificazioni di quei stessi concetti, non porci domande, e tentare di dare risposte nuove, sulla natura e il senso dell’arte?
«Non ti sembra che in realtà la domanda sia sempre la stessa? E cioè che finché ci sarà bruttezza ci sarà il desiderio di cambiare il mondo. L’arte non dovrebbe preoccuparsi del risultato degli eventi, ma piuttosto mettere in discussione il processo di questi eventi. Se la conoscenza è potere, allora tutto il potere è dalla parte dell’arte. Allo stesso tempo e solo per il piacere della contraddizione voglio finire con questa citazione dal romanzo Karoo (1998) di Steve Tesich, che mi rende più modesto e meno pretenzioso: “Così tante vite sono state sacrificate nel corso degli anni nel nome dell’Arte, che era giunto il momento che l’Arte fosse sacrificata nel nome della vita di qualcuno”».
Dovrà essere qualcuno di molto importante, oppure no. Ma forse è già successo.
Raffaele Gavarro
Traduzione dal francese di Raffaele Gavarro