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Kaneda Shōtarō, ragazzo di una gang di motociclisti di Neo Tokyo, è appollaiato su di una futuristica BMW carenata, pronto a colpire con un fucile laser il suo amico Tetzuo Shima, vittima di un esperimento e ormai creatura post-umana, dotata di spaventosi poteri ESP. Siamo nel 2019 e la città giapponese si è trasformata in un enorme cantiere in vista delle prossime Olimpiadi. Ma sotto lo stadio centrale, si nasconde una struttura militare multilivello, con una sala protetta da una blindatura spessa diversi metri. Lì è nascosto un corpo (o quello che vi rimane, la memoria dei codici) di pura energia. Il corpo dell’esperimento numero 28, del soggetto chiamato Akira, che sarà al centro di una furiosa caccia all’uomo e di una spietata lotta di potere.
Presentata per la prima volta nei cinema del Nord America il 25 dicembre 1989 dalla Streamline Pictures – Spielberg e Lucas avevano giudicato il lungometraggio poco commerciale – Akira, l’opera capolavoro di 124′ pensata e prodotta da Katsuhiro Ōtomo, compie 30 anni. Un’opera capitale, frutto di uno sforzo bellico, con quattro case giapponesi (Kodansha Ltd, Mainichi Broadcasting System, Toho Co., Bandai Co) coinvolte nella produzione e in grado di usare per la prima volta tecniche digitali di computer graphics.
Akira
Il soma dei personaggi non è legato alla tipica grammatica visiva dei manga (occhi grandi, lineamenti abbozzati, espressioni estremizzate) ma ha tratti orientali, estremamente realistici. La dimensione metropolitana-apocalittica, tipica di certe atmosfere alla Godzilla, Rodan e Megaloman, cioè un rimosso dell’evento nucleare-distruttivo e da una altrettanto rapidissima ricostruzione, è miscelata al racconto cyberpunk di marca americana, alla Williams Gibson e Philip K. Dick. Dunque, una fantascienza non solo visuale, megalitica e cibernetica ma anche tattile, interiore, che trapassa i confini della pelle e dei concetti umani del percepire e del sentire. Insomma, se l’opera per qualità e dimensione era destinata a un pubblico non strettamente giapponese, l’assurda ingiunzione di Kaneda, quella di uccidere l’amico Tetzuo, disvela un’oscura filigrana di marca tutta orientale. È infatti l’immagine di un’amicizia estrema, nata in condizioni estreme, sui banchi di una scuola di un anonimo distretto/dormitorio neo-tokyese, tanto votata al sacrificio quanto pronta al colpo di grazia. Uccidere di propria mano l’amico più intimo, con cui si è cresciuti tra graffiti e alcool, risse in classe e corse in moto, non è tabù ma una forma di amore, la più estrema e sorprendente.
In Akira infatti ogni cosa si riflette in un gioco di specchi con l’umano e il tecnologico, l’amore e l’odio, la vita e la morte che si deformano in una miscela spaventosa e disarmonica. Come le macerie fisiche e mentali che l’esper Tetzuo lascia dietro di sé, frutto dei suoi immensi bio-poteri telecinetici, immagine spettrale di un profondo senso di debolezza e di solitudine interiore. Come la irrefrenabile ricerca di libertà della folla in rivolta, che si tramuta in un caos di futura e certa schiavitù militare e tecnologica. Come il corpo/codice di Akira, supremo e indomabile potere trans-naturale e trans-tecnologico ma riposto in povere e anonime teche di vetro sotterrate. L’equilibrio dinamico e imprevedibile del tutto si ristabilirà con una nuova nuclearizzazione della megalopoli, decostruzione e ricostituzione di una ciclicità shintoista che, attraverso la fissione narrativa del prologo e dell’epilogo, ostacola la nostra capacità di cogliere il disegno di questo racconto di fantascienza ipertecnologico ma dalle profonde radici giapponesi.
Akira
Ma se questi elementi non sono facili da cogliere alla prima visione, perché Akira rimane così impresso nella mente? Perché subentra la rabbia e la forza sensuale del manufatto, la potenza delle immagini, del movimento, dei suoni. Una dimensione primitiva di godimento, di piacere, ai limiti del dolore. Esplode una gioia e una libertà selvatica provata dai personaggi in sella alle motociclette sullo sfondo di una metropoli avveniristica e una fruizione dei sensi giocosa, primitiva, per certi versi infantile. Dopo 30 anni torniamo così ad ammirare uno schermo vero, vivo, come se potessimo “toccare” Akira. Le esplosioni di luci segnaletiche nei boulevard, le onde d’acqua nei tunnel percorsi da moto volanti, la carne e il silicio che si fondono nel braccio di Tetzuo. È impossibile separare la complessa cinetica di colori e del movimento della pellicola dalla realtà fisica che ci circonda. Come se tornassimo in un indistinto mondo infantile, fatto di forme e suoni indistinguibili tra il mondo esterno e l’interiorità che ci trascinano e ci sconvolgono in ogni istante. È dunque il tema dell’infanzia perduta, manipolata e devastata per scopi scientifici, che diventa centrale. I bambini-esperimenti, il numero 27 Masaru, il 25 Kiyoko e 26 Takashi, cresciuti nei laboratori e potenziati artificialmente nelle proprie doti ESP, sono esperimenti-fenomeni di una nuova scienza paranormale. Invecchiare rimanendo bambini è l’unico modo per proteggere queste attitudini, queste capacità speciali, ovvero tenendosi in contatto in modo artificiale con Akira, con il potere primordiale. Proteggendosi con enormi esoscheletri assemblati alla buona con orsacchiotti, macchinine di plastica e bambole, le piccole vittime tentano in tutti i modi di difendere quello che è rimasto della loro infanzia: un legame di amicizia e un istinto di sopravvivenza e di protezione reciproca. Lo stesso Akira, protagonista di tanti flashback e visioni sfocate di Tetzuo, rimane un’ombra del nostro passato e del nostro presente, l‘ombra per antonomasia. Uno dei tanti bambini di cui ricordiamo vagamente volto, fattezze, emozioni senza sapere bene che fine abbia fatto.
Akira
L’inquietudine della fine, troppo simile all’inizio, la vicinanza-lontananza di persone con cui siamo cresciuti e che ormai infestano (o ravvivano) il nostro tempo come fantasmi, infine, la potenza soverchiante e incontrollabile del nostro essere ancora, tuttora, bambini, in corpi adulti mai veramente cresciuti. In questo devastato mosaico di dinamiche carnali ed emozionali, avvinghiate a rovinosi paesaggi di cemento, circuiti elettrici e metallo, Akira scruta oltre il proprio tempo di grande sviluppo e fiducia tecnologica, quello degli anni ’80, sottolineando l’importanza dei legami come grande potere interiore e somma “tecnologia” umana. Ma con una precisazione. Di non dimenticarsi mai che per questa non esistono tasti ON/OFF.
Per tutti i fan, l’appuntamento da segnare in caledario è il 18 aprile, quando, per il trentennale della prima uscita, nei cinema sarà distribuita una versione con un nuovo doppiaggio italiano. Su Nexodigital è possibile consultare l’elenco delle sale.
Domenico Sgambati