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Questa non è una mostra normale. Non è fatta per mostrare dipinti, sculture, un qualsiasi oggetto che passi per opera d’arte. Niente. Nelle sale dell’appartamento reale della Reggia-Museo di Capodimonte, all’inizio del prossimo autunno, il 21 settembre, vi sarà “Napoli, Napoli…di lava, porcellana e musica”: la mostra di una città. Che apparirà come la vedono quei napoletani che ne sono lontani e ne soffrono la nostalgia e i tanti stranieri che ne sono innamorati e gli si potrebbe chiedere perché.
Quindi di questa mostra su Napoli non è stato creato soltanto l’apparato ma (è un fatto unico) anche il contenuto, che è un’idea, una storia, un sogno. «Questa mostra è pazzesca, è una follia», ci dice il suo autore, Sylvain Bellenger, Direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte, che fa una pausa mentre socchiude gli occhi immaginandola, «ma è bellissima».
Poi Bellenger fa una proposta spiazzante. Invita exibart a visitarla ora, mentre ancora non è completa, non è ancora da mostrare al pubblico. Ha fiducia che potremo capirla. E non sarà con il ragionamento ma con quell’emozione che ti prende e che immediatamente tutto svela.
È una mattina dello scorso luglio, la notte si è dormito poco, figurando l’attesa. Saliamo al primo piano della reggia museo di Capodimonte. Ci accoglie una enorme figura di donna imparruccata che sembra sorgere da una tazza da caffè. Sarà forse la regina Carolina, a cui somiglia tanto nei ritratti, oppure la regina Amalia, quella che volle la famosa fabbrica di porcellane a Capodimonte? Non importa saperlo, qui è soltanto una regina di cartapesta. Mentre reali sono le insegne borboniche sulla parete e gli stemmi. Poi si entra nel sancta sanctorum.
Finora è top secret, neanche quelli che lavorano al museo sono ammessi nelle stanze dove è nata e va precisandosi questa visione della città. Entriamo. Ci vuole del riguardo. Stiamo entrando in un’anima. È un’emozione forte. In questa prima sala c’è un’atmosfera potentemente coinvolgente, c’è la Napoli religiosa, dalla fede profonda: il tabernacolo, l’acquasantiera, delle figure di cartapesta dalle lunghe vesti che, il viso celato, ci voltano le spalle e affondano nel muro della parete.
La morte, la summa della vita, la fede di una Napoli storica, antica ed eretica che conserva quel paganesimo che fu – è stato detto – “l’ombrifero prefazio del vero”. E fu una realtà calda, viva, che, riscoperta dagli scavi borbonici nei paesi vesuviani ricoperti dall’eruzione del 79 d. C., ci viene spesso mostrata nelle forme un po’ imbalsamate del neoclassicismo. Che rivoluzionò l’Europa ma non Napoli che, attenta alla sua realtà contemporanea, non vi si attardò.
Della vivace società del tempo, qui sono in mostra anche i dipinti di Gaspare Traversi, che rappresenta i personaggi strizzati in uno spazio ristretto, diverso da quello in cui quelli credono di stare: è la beffa ridente di un’arte che crea, di un’intelligenza libera dagli schemi, anche da quelli spaziali.
Ed ecco poi i morbidi spazi circolari delle vedute settecentesche, con il vivere armonioso di una società felice. È la Napoli dai mille volti, che viene rappresentata nelle varie sale: c’è il mondo della natura e quello del teatro e della danza, c’è l’esotico della Cina e l’esoterico dell’Egitto…e tanto altro ancora.
E, su tutto, ammiriamo l’eleganza della rappresentazione, l’armonia dei colori, la bellezza dei bianchi delle vesti dei pulcinella e delle ceramiche di Capodimonte. Mentre silenziosi, attenti, concentrati, lavorano gli operai.
In alto: ph. Luciano Romano