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biennale interviste Carlos Basualdo
biennale 2003
Argentino trentottenne, abita da dieci anni a New York. Bonami lo ha invitato a proporre un progetto per la Biennale con la direttiva di pensare a cosa è successo negli ultimi 20 anni al territorio dell’America Latina. Ci ha raccontato come è andata…
Come è stato l’incontro con Bonami per questa Biennale?
E’ molto tempo che conosco Bonami. Ho una grande amicizia e un grande rispetto per il suo lavoro. La sua idea di partenza era molto generale, ma portava in sé il problema che si può pensare l’America Latina solo da alcuni punti alcuni di vista e sempre in connessione con altri punti del mondo: non si può pensarla dal di dentro. Bonami è stato incredibilmente flessibile e generoso per permettere di pensare non dentro una geografia chiusa ma con un pensiero ampio.
Questo pensiero è il punto di vista che tu hai da New York?
No, si tratta di un’ottica complessa. Parlare di dentro e fuori non è la stessa cosa di cui si parlava all’inizio del secolo scorso. Io sono figlio di immigranti. Mio padre è basco e mia madre ha origini italiane. Quindi sono in una prospettiva in cui la storia personale ha molto a che vedere con la storia del secolo. Io lavoro molto in Europa, ho lavorato a Documenta con Okwi Enwezor, ma lavoro molto anche in America Latina e negli Stati Uniti. Non posso dire che la mia prospettiva è solo quella di un latino americano che vive negli Stati Uniti perché io non mi sento così, ci sono molti livelli che fanno la cosa molto più complessa. Ho cercato di riflettere su tali questioni nella mia mostra, anche conversando molto con gli artisti che hanno una situazione simile. È per questo che non si può parlare di una geografia dei limiti ma si deve trattare di una geografia dei collegamenti e dei rapporti.
Sei partito da artisti che conoscevi già?
Ho avuto la possibilità di fare della ricerca che ha permesso di fare delle esperienze nuove e di scoprire moltissimo. Quasi tutte le opere della mostra sono state fatte per qualche esposizione. Ci sono anche lavori fatti appositamente per la Biennale da artisti con cui lavoro per la prima volta. L’idea era quella di non fare una mostra basata su una mia nozione che le opere avrebbero dovuto illustrare. Per me è più una conversazione. Dopo l’incontro con gli artisti il concetto cambia e per me è interessante seguire questi cambiamenti ed evolvere con gli artisti, ciò è successo e per questo sono soddisfatto.
Gli artisti che hai raccolto qui che ruolo hanno in situazioni geografiche meno occidentali?
Credo che ormai l’occidente sia dappertutto. Anche queste sono modi diversi di guardare alla modernità. Alcuni artisti lavorano in situazioni di crisi estrema, altri lavorano negli Stati Uniti. Non si può generalizzare parlando per stati nazione. Ci sono artisti nigeriani ricchissimi e artisti newyorkesi in condizioni di estrema fragilità. I rapporti costanti e ricorrenti che si possono individuare tra le opere di artisti che vivono in situazioni molto diverse, dipendono dal fatto che sono tutti artisti che pensano tra l’estetica, pensano con l’arte o tra l’arte, sulla crisi. Questo è per me il fatto più importante. Non mi interessa invece il luogo di provenienza dell’artista. Oggi dobbiamo pensare alla complessità del rapporto tra l’arte e le condizioni in cui essa viene prodotta.
Che idea hanno delle istituzioni politiche e sociali questi artisti con cui hai lavorato?
Questa è una domanda molto buona, non so se il mio italiano è chiaro abbastanza per spiegarmi. Nelle situazioni di crisi le istituzioni sono fragili. L’istituzione dell’arte, che è molto forte in alcune situazioni, diventa fragilissima, quasi nulla in altre. Il che comporta che la stessa nozione di arte debba essere inventata in ogni opera. Il concetto e la pratica artistica vengono ricreati ad ogni opera, quando ci si trova nelle situazioni di crisi. Questo lo trovo interessantissimo e si vede molto bene nelle opere qui presenti. Ci siamo abituati a pensare che in Europa le istituzioni sono forti, ma se pensi che 50 anni fa nazisti e fascisti distruggevano opere e libri mirando ad annientare tutto il pensiero progressista, allora capisci che qualsiasi istituzione può crollare e lasciare spazio alle barbarie. La forza è nell’atto estetico, non nell’istituzione artistica.
Tu dici dunque che i linguaggi dell’arte vengono reinventati continuamente. Che attenzione vi hai prestato in questa mostra?
Non si può parlare d’arte senza parlare della sua matericità. Gli artisti pensano ai materiali con cui lavorano come elementi linguistici, stilistici e anche contenutistici. Anche la tecnologia à un materiale. Allo stesso tempo gli artisti hanno qualcosa da raccontare. Ho cercato di dare attenzione sia ai linguaggi che ai contenuti che gli artisti volevano comunicare.
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[exibart]