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Médéric Turay – Atlante di un aedo sciamano
Una quindicina di opere di Médéric Turay, tra dipinti e sculture appositamente realizzate, contribuiscono a delineare l’atlante creativo del giovane artista africano che si autodefinisce “un viaggiatore alla ricerca perpetua di colori e storie” per la sua prima personale in Italia.
Comunicato stampa
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La Galleria Giovanni Bonelli è lieta di presentare nella propria sede di Milano la prima personale in Italia dell’artista Mederic Turay (Abidjan, Costa d’Avorio 1979) curata da Alessandro Romanini e realizzata in collaborazione con Fondation Invisible Borders.
Nel 1989 si teneva al Centre George Pompidou di Parigi la mostra “Les Magiciens de la Terre” curata da Jean-Hubert Martin e Andrè Magnin, che per la prima volta poneva l’arte dei 5 continenti sullo stesso piano, dando ampio rilievo all’arte africana. Nel trentesimo anniversario di quell’evento il curatore così racconta la genesi di questa mostra milanese: “L’arte africana nel corso degli ultimi anni si è ritagliata negli Stati Uniti e in Europa un ampio spazio di critica e di pubblico e crescenti consensi collezionistici da Istituzioni e privati, con un palese ritardo manifestato dalla nostra penisola, che questa mostra prova a recuperare (…)”. Una quindicina di opere, tra dipinti e sculture appositamente realizzate, contribuiscono a delineare l’atlante creativo del giovane artista africano che si autodefinisce “un viaggiatore alla ricerca perpetua di colori e storie”. Nel suo percorso Turay ha saputo creare un personalissimo stile in grado di sintetizzare le ascendenze culturali e figurative africane con le influenze iconografiche occidentali in una koinè linguistica che armonizza la struttura compositiva scultorea classica con la tradizione delle maschere subsahariane, mettendo in sinergia la dimensione rituale di queste ultime con la dimensione estetica contemporanea.
L’artista realizza le sue opere ricorrendo a tecniche disparate: dalla pittura ad olio e ad acrilico, al pastello fino all’impiego del caffè o altre sostanze naturali, creando un assemblaggio di elementi iconografici eterogenei ma sapientemente composti. Un articolato universo creativo in cui si fondono la sua ammirazione per il genio di Leonardo da Vinci e per il Wild Expressionism di Basquiat. Nel suo operare convivono la tradizione dell’aedo della Grecia classica e quella dello sciamano: entrambi chiamati a fungere da raccordo tra le divinità e gli umani, entrambi cantori e narratori con una sviluppata capacità metasensibile che parlano a nome delle Muse.
Ed è attraverso le Muse pittoriche e scultoree, ma anche gli interventi pubblici di street art che Turay esprime ed eredita la lezione di aedi e sciamani: “Le storie ci aiutano a imparare dal passato e pianificare il futuro”, dice l’artista che si considera, infatti, un narratore per immagini. La sua formazione multiculturale -ha vissuto in America nel periodo scolastico dai 4 ai 20 anni- lo porta a sostenere, sulla scorta delle teorie di Noam Chomsky, “L’esistenza di una grammatica (soprattutto visiva) universale che supera le barriere etniche, culturali e religiose (…)” e “(…) il permanere di una memoria collettiva universale che unisce gli esseri dei cinque continenti attraverso i millenni (…)”, affermando l’insopprimibile bisogno, comune agli esseri umani di tutte le razze, di lasciare tracce del proprio passaggio sulla terra.
Il potere di penetrazione globale dell’arte africana testimoniata da Turay, in una civiltà immersa nella liquidità delle relazioni umane e della comunicazione permanente e virtuale come la nostra, è legato alla mancanza di preconcetti e pregiudizi delle proprie forme espressive. Dai suoi lavori si sprigiona un’energia atavica, che rimanda a un passato universale e a una dimensione di espressione infantile comune al genere umano.
Meredic Turay è un “narratore” di storie e, soprattutto, di sogni che sono, in tutte le civiltà, pensieri senza suono ma con immagini poderose.
Nel 1989 si teneva al Centre George Pompidou di Parigi la mostra “Les Magiciens de la Terre” curata da Jean-Hubert Martin e Andrè Magnin, che per la prima volta poneva l’arte dei 5 continenti sullo stesso piano, dando ampio rilievo all’arte africana. Nel trentesimo anniversario di quell’evento il curatore così racconta la genesi di questa mostra milanese: “L’arte africana nel corso degli ultimi anni si è ritagliata negli Stati Uniti e in Europa un ampio spazio di critica e di pubblico e crescenti consensi collezionistici da Istituzioni e privati, con un palese ritardo manifestato dalla nostra penisola, che questa mostra prova a recuperare (…)”. Una quindicina di opere, tra dipinti e sculture appositamente realizzate, contribuiscono a delineare l’atlante creativo del giovane artista africano che si autodefinisce “un viaggiatore alla ricerca perpetua di colori e storie”. Nel suo percorso Turay ha saputo creare un personalissimo stile in grado di sintetizzare le ascendenze culturali e figurative africane con le influenze iconografiche occidentali in una koinè linguistica che armonizza la struttura compositiva scultorea classica con la tradizione delle maschere subsahariane, mettendo in sinergia la dimensione rituale di queste ultime con la dimensione estetica contemporanea.
L’artista realizza le sue opere ricorrendo a tecniche disparate: dalla pittura ad olio e ad acrilico, al pastello fino all’impiego del caffè o altre sostanze naturali, creando un assemblaggio di elementi iconografici eterogenei ma sapientemente composti. Un articolato universo creativo in cui si fondono la sua ammirazione per il genio di Leonardo da Vinci e per il Wild Expressionism di Basquiat. Nel suo operare convivono la tradizione dell’aedo della Grecia classica e quella dello sciamano: entrambi chiamati a fungere da raccordo tra le divinità e gli umani, entrambi cantori e narratori con una sviluppata capacità metasensibile che parlano a nome delle Muse.
Ed è attraverso le Muse pittoriche e scultoree, ma anche gli interventi pubblici di street art che Turay esprime ed eredita la lezione di aedi e sciamani: “Le storie ci aiutano a imparare dal passato e pianificare il futuro”, dice l’artista che si considera, infatti, un narratore per immagini. La sua formazione multiculturale -ha vissuto in America nel periodo scolastico dai 4 ai 20 anni- lo porta a sostenere, sulla scorta delle teorie di Noam Chomsky, “L’esistenza di una grammatica (soprattutto visiva) universale che supera le barriere etniche, culturali e religiose (…)” e “(…) il permanere di una memoria collettiva universale che unisce gli esseri dei cinque continenti attraverso i millenni (…)”, affermando l’insopprimibile bisogno, comune agli esseri umani di tutte le razze, di lasciare tracce del proprio passaggio sulla terra.
Il potere di penetrazione globale dell’arte africana testimoniata da Turay, in una civiltà immersa nella liquidità delle relazioni umane e della comunicazione permanente e virtuale come la nostra, è legato alla mancanza di preconcetti e pregiudizi delle proprie forme espressive. Dai suoi lavori si sprigiona un’energia atavica, che rimanda a un passato universale e a una dimensione di espressione infantile comune al genere umano.
Meredic Turay è un “narratore” di storie e, soprattutto, di sogni che sono, in tutte le civiltà, pensieri senza suono ma con immagini poderose.
26
settembre 2019
Médéric Turay – Atlante di un aedo sciamano
Dal 26 settembre al 09 novembre 2019
arte contemporanea
Location
GALLERIA GIOVANNI BONELLI
Milano, Via Luigi Porro Lambertenghi, 6, (Milano)
Milano, Via Luigi Porro Lambertenghi, 6, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a sabato 11-19
Vernissage
26 Settembre 2019, ore 19.00
Sito web
Autore
Curatore