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Simon Starling e la mostra delle cose spezzate
Arte contemporanea
Questa è una mostra sul dividersi, sullo spezzare, e sul ricongiungere. Ha a che fare con il tempo, con lo spazio e anche con alcuni oggetti. Sono tutti oggetti che hanno una storia da raccontare.
Ma andiamo con ordine.
C’è la riproduzione di un dipinto di Tiepolo, Mosè salvato dalle acque (1730 circa) e c’è una Fiat blu 125, un modello piuttosto popolare una quarantina di anni fa.
E poi ci sono due mostre di Simon Starling, artista scozzese, Turner Prize 2005 e rappresentante della Scozia alla Biennale di Venezia del 2003, alla sua sesta personale con la Galleria Franco Noero a Torino.
Una mostra è al Modern Institute di Glasgow, che chiude in questi giorni, la seconda nella sede di Noero di Piazza Carignano.
Il dipinto di Tiepolo ha, appunto, una sua storia da raccontare. Chissà come, nel corso dei secoli, è stato diviso in due parti. Una parte, più ampia, racconta la storia di Mosé infante di umilissime origini che, trovato in una cesta sul fiume Nilo dalla figlia del Faraone, viene accolto a corte come un figlio. L’altra parte del dipinto di Tiepolo rappresenta un alabardiere. Chissà come, chissà quando, le due parti del dipinto sono state divise e hanno preso strade differenti.
La parte che raffigura Mosè è finita alla Scottish National Gallery. La seconda parte, più piccola, quella dell’alabardiere, è finita invece a Torino, nella collezione dell’Avvocato Gianni Agnelli e dei suoi eredi.
Starling prende il dipinto e lo riproduce in stampa, con migliaia di fotografie, fino a che la stampa non sembra quasi un originale. Poi taglia il dipinto in due parti.
A Torino, dove c’è ancora la Fiat (almeno in parte), da Noero, la riproduzione della parte del dipinto che rappresenta Mosè accoglie il visitatore nella prima sala espositiva. A Glasgow resta invece, a tenere il filo del discorso aperto, la riproduzione dell’alabardiere.
E poi c’è la 125 blu. È la stessa auto con cui l’Avvocato girava per Torino tra gli anni ’70 e ’80. Un’auto qualunque, un modello qualunque, umile tutto sommato. Un po’ come la cesta di Mosé bambino, un umile contenitore contiene e nasconde un uomo potente.
Ma questa, ricordiamo, è una mostra sullo spezzare e sul dividere, perciò Starling prende la 125 e la taglia in due, anche lei, verticalmente, nelle precise proporzioni in cui fu separato il dipinto di Tiepolo, Mosè dall’alabardiere.
La metà (che metà non è, un po’ meno) della 125 sta a Torino, come a compensare l’assenza dell’alabardiere nel Tiepolo. L’alabardiere, da solo, a Glasgow, è posto, invece, vicino alla parte più grande del vecchio modello di Fiat.
Due oggetti sono così separati e poi ricongiunti, ma l’uno con la parte dell’altro, come in un puzzle scomposto.
L’atto è quello del separare e poi ricongiungere, ma collegando le cose tra loro in modo strano, inatteso. Un po’ come la Brexit, un po’ come la FCA che ha sede nel Regno Unito e non più a Torino, dove pure produce ancora qualcosa. Chi può dirlo.
Ma la mostra non finisce qui. Ci sono tante altre opere: silhouette di ferro con maschere che rappresentano il volto dello stesso Starling all’opera, o nella posa dell’alabardiere, ancora lui. Ci sono calchi delle mani dello stesso artista, e di suo padre e di suo figlio. E poi c’è l’Avvocato, intento a leggere lo script di una pièce del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame, Clacson trombette e pernacchi (1981). Una pièce teatrale che proprio con lui, l’Avvocato, era pungente.
E poi, ancora, ci sono lettere, un font. Un font inventato apposta da un gruppo di grafici.
Anche qui c’è una narrazione, anzi un vero e proprio racconto, nascosto tra le pieghe delle lettere incollate alle pareti e delle vetrinette che espongono oggetti apparentemente qualunque. Una lettera scritta a macchina, una busta, delle diapositive. Le lettere, in particolare, si avvicendano lungo le sale della galleria, fino a giungere a coprire una parete per poi tornare ad alternarsi, qua e là.
Finché, nell’ultima sala, abbiamo tutti gli elementi per il racconto. Scopriamo che si tratta del ritrovamento di uno studio sull’immagine grafica di un’azienda, Italiacore, negli anni ’80. Un’azienda che doveva nascere, allora, ma che rimase un’idea. Insomma, accadde qualcosa, chissà cosa, e il lavoro non andò a buon fine. Il font inventato apposta per quell’azienda che non si costituì mai esiste ancora, testimonianza di un sogno, una start up, diremmo oggi, un progetto tutto italiano che è ancora lì, da costruire.
Questa mostra è fatta tutta di racconti. Racconti impliciti nei pezzi di cose da ricongiungere, racconti nascosti nelle cose che restano sospese, incompiute, che chiamano altre cose, che sono lontane. Ma come diceva Benjamin, il racconto ha sempre a che fare con il tempo e lo spazio di un “altrove”. Diremo perciò che il centro dell’esposizione è proprio la rappresentazione dell’altrove.
È l’altrove il protagonista, o il co-protagonista, senza il quale la storia non è completa. La parte mancante, assente, che non è qui. Che è assente perché è dislocata in un altro luogo, un altrove, appunto, in cui noi non siamo, ma che immaginiamo, perché continuamente ci richiama.
L’art week torinese è alle porte e questa mostra intelligente sarà una tappa obbligata per tutti i visitatori. Occhio, però, questa è una mostra da vedere aprendo la mente, oltre agli occhi. Per ricongiungere ciò che appare spezzato, creando connessioni nuove, cogliendo i dettagli, ipotizzando e soprattutto immaginando quell’altrove evocato da ogni vero racconto.