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A Torino, alle 19, inaugura oggi, primo novembre, il grande progetto site specific di Berlinde De Bruyckere (1964, Gand) per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, a cura di Irene Calderoni.
Una mostra dal forte pathos, che parte dalla crudezza della realtà per giungere all’universalità e alla speranza: un percorso espositivo che si radica nell’unione tra temi della ricerca dell’artista, il generale clima socio-politico e la visita a un laboratorio per la lavorazione delle pelli.
Berlinde De Bruyckere ci ha raccontato la mostra e la sua nascita.
Come è nata la mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo? Come ha scelto i lavori da esporre?
«L’idea iniziale era creare una presentazione del mio lavoro più vicina a una retrospettiva. Nella collezione della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo sono presenti due dei miei primi lavori, avevamo quindi pensato ad una presentazione che includesse questi due pezzi chiave.
Tuttavia, dopo aver visto questo spazio tanto particolare e le sue monumentali dimensioni, il susseguirsi di spazi differenti e la possibilità di integrare il corridoio all’interno del percorso, ho sentito la necessità di riconsiderare l’idea iniziale.
Lo spazio mi permetteva, e insieme mi richiedeva, di creare una proposta più condensata, una narrazione unificata che esplorasse i temi universali del corpo sofferente, della vulnerabilità umana e il bisogno di trasformazione e protezione, la violenza, in modi differenti. Ho scelto di concentrarmi su un preciso tema e su uno specifico materiale, che in un certo modo incarnassero l’essenza di tutta la mia ricerca portata avanti fino ad ora».
In mostra si susseguono sculture monumentali e installazioni di grandi dimensioni creando un percorso emotivamente molto forte, che unisce vita e morte. Come questi lavori si sono sviluppati nel tempo e da che cosa sono stati ispirati?
«Più di cinque anni fa, alla fine del 2013, ho visitato un laboratorio per la lavorazione delle pelle ad Anderlecht, in Belgio. Era un periodo particolare: la crisi dei rifugiati, che ancora oggi rimane un problema urgente, è iniziata in quell’anno e noi eravamo continuamente esposti alle immagini delle tragedie umane proprio sulle nostre coste. Ho percepito che non eravamo mai stati circondati dalla morte su così larga scala, così intimamente connessa con le nostre vite.
Proprio in quel momento sono entrata nel laboratorio di Anderlecht per selezionare delle pelli di cavallo per i miei lavori, è un luogo in cui le pelli appena scuoiate arrivano direttamente dal mattatoio. Ciò a cui ho assistito è stata un’esperienza molto forte, che mi ritrovo a rivivere ora, più di cinque anni dopo.
Non potevo distogliere lo sguardo dalle attività che si svolgevano in quel posto che sembrava al di fuori del mondo e allo stesso tempo era come uno specchio del mondo stesso. Grandi contenitori riempiti con pelli animali come se fossero spazzatura, poi estratte manualmente una ad una per essere ispezionate, etichettate, trattate e conservate: l’inizio di qualcosa di nuovo.
Le pelli etichettate distese, in una delle immagini più erotiche che abbia mai visto, venivano salate con un movimento simile a un rituale e sovrapposte, strato su strato, sopra ai pallets. In nessun altro luogo avevo esperito vita e morte così vicine come qui. Eros e Thanatos».
Come ha condensato tutto ciò nel percorso espositivo?
«Questa forte consapevolezza della dualità della vita e della morte è un elemento che ho voluto traslare in questa mostra in molti modi diversi, affrontando diversi livelli di trasformazione. Questo è forse più tangibile nelle serie di pile di pelli nel corridoio: le prime che si incontrano sono le più difficili da decifrare, potrebbero essere calchi in cera di formazioni rocciose, o tessuti compressi, c’è perfino una “strizzatina d’occhio” all’Arte Povera.
Da questo livello di fusione tra astrazione e brutalità, si passa ad incontrare poi l’installazione nello spazio principale: ci si avvicina alle pile che espongono in modo chiaro l’elemento della pelle piegata, che costituisce un approccio molto più delicato.
Assomigliano quasi alle pile di coperte che tengo nel mio studio, ordinatamente piegate per conservarle e proteggerle.
L’ultimo lavoro della serie delle pile di pelli ha un carattere unico: in qualche modo sembra essere crollato, danneggiato. Qualcosa è stato tolto da questa pila: un segno di continuazione. Questo ci conduce all’ultimo spazio della mostra, dove la trasformazione delle pelli diviene più evidente, perché sono trasformate in monumentali petali di fiore, una visione di vita nel regno del decadimento».
Come sceglie i materiali per i Suoi lavori?
«I materiali che utilizzo sono per me essenziali per affrontare le complesse e impegnative questioni verso cui indirizzo i miei lavori. La cera, ad esempio, è un materiale morbido, è delicato, semplice da manipolare e mi consente di usare tutte le gamme di colore che desidero. Mi permette di trasformare le brutali e inquietanti immagini che sono il punto di partenza per la maggior parte dei miei lavori in qualcosa che, in qualche modo, rimane nel limite di ciò che possiamo sopportare, di ciò che possiamo accettare. L’aspetto repellente delle pelli di animali scorticarti, una volta “tradotte” in un calco di cera, tinto in colori delicati, fino al pastello, divengono sopportabili. Possono perfino rivelare un aspetto di bellezza».
Nella Sua ricerca sono condensati i sentimenti umani e gli aspetti della vita più forti: speranza, paura, dolore, vita, morte. Come riesce, nei Suoi lavori, a portare l’osservatore dai sentimenti più oscuri alla “luce”, alla speranza?
«L’incontro a Anderlecht condensa tutti questi elementi centrali della vita umana in un modo molto potente e immediato. Nel mio lavoro, tuttavia, ho gradualmente provato a tradurre queste forti immagini di erotismo, l’idea di testimonianza dei resti di un crimine brutale e la possibilità di una rinascita in un’immagine di silenzio, di qualcosa che è presente in modo latente, ma deve ancora essere svelato. Da qui il titolo “Aletheia!” [dal greco antico, svelamento, rivelazione, ndr].
Nello spazio dell’installazione l’elemento del sale è molto importante in questo senso. Sebbene il sale sia qualcosa che possiamo percepire come un elemento invadente, in particolare in relazione alla pelle (“to rub salt in the wound”) [letteralmente strofinare il sale sulle ferite, l’equivalente dell’italiano “girare il coltello nella piaga”, ndr], qui io percepisco che la presenza del sale collega la brutalità delle monumentali pile di pelle a un’immagine di pace e quiete, di tranquillità. Le pile di pelli salate si trasformano in un paesaggio coperto di neve. Questo permette all’osservatore una moltitudine di esperienze, di interpretazioni: da qualcosa di molto oscuro e inquietante a qualcosa di sereno».
Berlinde De Bruyckere
Aletheia!
A cura di Irene Calderoni
Dal primo novembre 2019 al 15 marzo 2020
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
Via Modane 16, Torino
Opening: 1 novembre 2019, alle 19.00
Orari: giovedì dalle 20.00 alle 23.00 (ingresso libero), venerdì, sabato e domenica dalle 12.00 alle 19.00 (chiuso dal lunedì al mercoledì)
www.fsrr.org, info@fsrr.org
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