26 novembre 2019

Un restauro a cielo aperto per la Pietà Bandini di Michelangelo

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Il restauro, annunciato dalla Fondazione Friends of Florence, che finanzierà i lavori, e dall’Opera di Santa Maria del Fiore, sarà visibile al pubblico e finirà per l'estate 2020

È una delle opere più ammirate del mondo e, adesso, ha bisogno di ricevere un po’ di cure. La Pietà di Michelangelo conservata nel Museo dell’Opera del Duomo di Firenze e conosciuta come Pietà Bandini, sarà interessata da un importante restauro che, come spesso capita nel caso di interventi dedicati a capolavori del genere, sarà aperto al pubblico. I restauri, annunciati dalla Fondazione Friends of Florence, che finanzierà i lavori, e dall’Opera di Santa Maria del Fiore, saranno affidati a Paola Rosa, esperta di opere michelangiolesche, e alla sua equipe, proveniente dall’Opificio delle Pietre Dure.

Il termine dei lavori è previsto per l’estate del 2020 e, come nella tradizione del restauro italiano, saranno rispettosi degli effetti dovuti al tempo e agli interventi successivi. Sarà quindi tutelata la superficie ambrata che, ormai, è diventata identificativa dell’opera, dovuta con ogni probabilità ai tentativi di effettuare un calco, nel XIX secolo.

La travagliata storia della Pietà Bandini di Michelangelo

Databile agli anni compresi tra il 1547 e il 1555, la Pietà Bandini, dal nome del banchiere che la acquistò nel 1561, è una delle opere senili di Michelangelo. Al culmine della fama e colpito dalla scomparsa dell’amica Vittoria Colonna, il grande Maestro, ormai anziano, sentiva l’approssimarsi della fine e si dedicò alla progettazione della sua sepoltura. Considerato già in vita un artista leggendario, ricchissimo ma parco – qualcuno potrebbe anche dire avaro – Michelangelo, in questo periodo, si dedicò assiduamente al tema della Pietà, come meditazione sulla vita e sulla morte.

Per quest’opera, fu usato un blocco di marmo di Carrara che, avanzato dalla tomba di Giulio II, era duro e pieno di impurità, difficile da modellare, come ricordato anche da Giorgio Vasari. Ossessionato dalla vecchiaia, Michelangelo fu colpito da crisi depressive e tentò in più occasioni di distruggere la scultura, nella quale aveva inserito il proprio ritratto, per la figura di Nicodemo, personaggio chiave nell’iconografia della Deposizione. Tracce di rottura si vedono ancora oggi sul gomito, sul petto e sulla spalla di Gesù, al quale peraltro manca la gamba sinistra – probabilmente per una precisa scelta compositiva di Michelangelo – oltre che sulla mano di Maria.

Fu un suo assistente, Antonio da Casteldurante, a impedirgli di fare altri danni e, dopo essersi fatto regalare il gruppo scultoreo, lo fece restaurare da Tiberio Calcagni. E fu proprio lo scaltro Antonio a venderla a Francesco Bandini, per la somma di 200 scudi.

Nel 1564, alla morte di Michelangelo, si provò a portare la statua a Firenze per la sepoltura in Santa Croce. Restò invece nella villa dei Bandini a Montecavallo. Nel 1674 fu acquistata dal granduca Cosimo III de Medici e portata a Firenze, nei sotterranei di San Lorenzo, luogo di sepoltura della casata dei Medici. Nel 1722 venne poi trasportata in Santa Maria del Fiore e, nel 1981, fu infine destinata al Museo dell’Opera del Duomo.

I restauri a cielo aperto

Nel corso dei secoli, sull’opera si sono depositati strati di polveri, senza contare interventi per tentare di riparare i danni apportati dallo stesso Michelangelo e per rinforzare la scultura. Già negli anni ’90, un’analisi ai raggi gamma ha evidenziato la presenza di staffe in ferro all’interno della Pietà ma le condizioni delle aggiunte, almeno all’epoca, erano buone.

Il restauro della Pietà di Michelangelo sarà comunque preceduto da una dettagliata analisi dello stato conservativo complessivo ma è proprio lo sporco uno dei problemi principali: «Secondo quanto sappiamo, non è mai stata effettuata una profonda pulitura», ha spiegato Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera del Duomo. Probabilmente una pulitura fu effettuata tra il 1946 e il 1949 ma non c’è una documentazione. Il colore così scuro potrebbe essere dovuto non solo al tentativo di effettuare un calco, nel 1882, ma anche alla qualità del marmo tutt’altro che eccelsa. L’equipe di Rosa effettuerà una analisi per capire esattamente di che tipo di marmo si tratta. I restauratori lavoreranno in un cantiere aperto, «per rendere i lavori parte dell’esperienza di visita», ha continuato Verdon.

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