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Lo scorso 21 dicembre è stata aperta al pubblico l’ottava edizione di Bi-City, la Biennale di Urbanismo e Architettura a Shenzen e Hong Kong, a cura di Carlo Ratti e Fabio Cavallucci, che rimarrà aperta fino a marzo, ma l’allarme coronavirus ha drasticamente ridotto il numero di visitatori.
Abbiamo raggiunto Fabio Cavallucci, che ci ha raccontato di Bi-City Biennale e della situazione in Cina, tra coronavirus, l’edizione di Art Basel Hong Kong a rischio e il futuro delle biennali.
Mentre accade la Brexit, con buona pace di chi ancora è incredulo, le pagine dei giornali mondiali stanno puntando tutta l’attenzione sul coronavirus e ad ArtBasel Hong Kong si chiede di annullare la fiera, a marzo. Queste psicosi contemporanee (e questi occultamenti di altre notizie ben più forti) mi sembrano molto in linea con Bi-City. Come si sta vivendo a Shenzhen questo momento?
«Per fortuna sono “sfuggito” pochi giorni prima che l’epidemia cominciasse a dilagare. L’inaugurazione della Biennale è stata il 21 dicembre; la stessa notte, all’1,30, ero già sull’aereo che mi riportava in Italia. Gli ultimi mesi di organizzazione erano stati molto faticosi, e poi – anche se questo in Cina non significa molto – da noi era ormai Natale e avevamo tutti voglia di tornare a casa. Ancora, anche se poi le informazioni successive hanno riconosciuto che il virus era già in via di diffusione, non c’era alcun sentore dell’epidemia.
In un certo senso è vero, la Bi-City Biennale tocca anche temi che oggi sono diventati realtà. Avendo scelto di affrontare il tema dello sviluppo urbano in relazione alle nuove tecnologie attraverso lo strumento della fantascienza, abbiamo collezionato un bel po’ di visioni utopiche, positive, ottimiste, in cui si immagina la città del futuro guidata dall’intelligenza artificiale o le sue strade su più livelli percorse da auto a guida autonoma, ma anche le visioni distopiche non sono mancate. François Roche, ad esempio, presenta un lavoro in cui un muro nero di materiale carbonizzato è al centro di una stanza nera. Nero su nero, il lavoro rimanda al dramma ecologico, a esalazioni tossiche, a espansioni batteriche, ma è anche metafora di una crisi di sistema, individuale e sociale. Oppure Aristide Antonas costruisce palafitte tecnologiche, rifugi del day after, con cucce elevate, separate le une dalle altre, alzate a cinque metri d’altezza, come a cercare di difendersi da un ambiente contaminato.
Dopo la necessità di ripensare al format museale, pensi che sia necessario anche ripensare al concetto di “Biennale” non come semplice mostra tematica (come viene sempre sviluppata)? E in che modo?
«Di sicuro siamo in un momento in cui non esiste nulla di certo e valido eternamente. Senza dubbio va ripensato il format delle biennali, perlomeno di quelle di architettura, che è ciò che in qualche grado abbiamo cercato di fare a Shenzhen (non dimentichiamo che si tratta di una Biennale di Architettura e Urbanistica). Tradizionalmente, fino a circa un ventennio fa, queste biennali erano di carattere molto tecnico, con l’esposizione di progetti, plastici ed eventualmente foto e video per mostrare in modo oggettivo edifici o infrastrutture. Ma se allestite in modo classico, finiscono per essere noiose per il largo pubblico: chi riesce a guardare a fondo una mostra di architettura dopo tre o quattro progetti?
Così, insieme alla mia collega Manuela Lietti e ai membri cinesi del mio team, abbiamo cercato di rinnovare la modalità espositiva di una mostra di architettura. Abbiamo provato a realizzare un percorso che partendo dal punto di vista dei singoli cittadini (qui anche i videodocumenti sulle famiglie di varie città del mondo girati da ZimmerFrei sono stati fondamentali), attraverso quello degli architetti e degli urbanisti (ricordo Mamou Mani, PLP, Oma e, tra gli italiani, Stefano Boeri), arrivasse alla visione più utopica, quella fantascientifica appunto (tra i presenti Liam Young, Jan Rafman, ma anche il nostro Salvatore Arancio). Il tentativo, nella nostra sezione intitolata “Ascending City” che si svolge nel nuovo museo Mocape di Coop Himmel(b)lau, è stato dunque quello di fare una mostra come una narrazione.