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Umberto Bignardi e gli anni Sessanta alla Galleria Bianconi
Arte contemporanea
Una declinazione personalissima degli anni Sessanta è quella proposta dalla Galleria Bianconi di Milano che presenta Umberto Bignardi (Bologna, 1935), pioniere delle sperimentazioni visuali e multimediali, nella sua ricerca condotta tra il 1964 e il 1967. Ne abbiamo parlato con la titolare della galleria Renata Bianconi, e con il curatore del progetto, Lorenzo Madaro.
Quando è cominciato il sodalizio professionale tra la Galleria Bianconi e Umberto Bignardi? Come si è evoluto negli anni?
R.B.: «Una delle caratteristiche fondanti della Galleria Bianconi è quella di indagare e dare visibilità a personalità dell’arte italiana del XX secolo di grandissimo spessore artistico-culturale, spesso all’avanguardia per i propri tempi, ma che per alterne vicende sono state in qualche misura allontanate dai riflettori del palcoscenico dell’arte. Fu così che nel 2015 un importante studioso e curatore, Walter Guadagnini, con cui ho avuto l’onore e il piacere di collaborare più volte, mi presentò Umberto Bignardi. Rimasi immediatamente affascinata dalla modernità, bellezza e raffinatezza delle opere di Bignardi e decisi, insieme a Walter Guadagnini, di organizzare subito una personale dell’artista dedicata ai sui primi significativi anni romani, quelli con Plinio de Martiis della Galleria La Tartaruga, 1959-1964. Da allora si è instaurato uno stretto legame di collaborazione e amicizia con Umberto non solo con l’inserimento di suoi lavori in molti progetti realizzati dalla galleria, ma soprattutto seguendo le linee guida tracciate nel 1994 da Laura Cherubini in occasione della personale realizzata in collaborazione con Maurizio Calvesi dall’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, sviluppata in un’immensa indagine di archivio che sfocerà nella ideazione e realizzazione del catalogo e della mostra, attualmente in corso presso la mia galleria, “Umberto Bignardi: sperimentazioni visuali a Roma 1964-1967”, curati da Lorenzo Madaro».
Umberto Bignardi è un protagonista degli anni Sessanta. Come li affronta rispetto ai suoi compagni di strada Schifano, Festa, Angeli e Fioroni?
L.M. «Harper’s Bazar e Vogue, ma anche Elle e Fortune e Mc Calls, le riviste di abbigliamento, con immagini realizzate da brillanti illustratori, sono le fonti primarie di approvvigionamento di icone – anche a livello semiologico – per Umberto Bignardi nei primissimi Sessanta. Già da ragazzino era un accanito lettore di riviste americane e poi, una volta a Roma, dopo la stagione post-informale, legata anche al suo rapporto profondo con Cy Twombly, approda all’immagine e lo fa in una chiave molto autonoma rispetto alle esperienze neo-dada dei suoi compagni di strada, spingendosi tra l’altro verso le orbite del cinema espanso e dell’installazione multimediale. Come rivelerà apertamente nel 1967 con il Rotor, tra suoi capolavori esposti in Galleria Bianconi, presentato per la prima volta a Fuoco Immagine Acqua Terra, mostra corale organizzata dal genio di Fabio Sargentini a L’Attico e poi riproposta, qualche mese dopo, a Genova, in un’altra mostra paradigmatica di questa felice stagione, Arte Povera e Im Spazio alla Bertesca, a cura di Germano Celant. In mostra abbiamo delle preziose lettere inedite di Celant, allora ventisettenne, che definisce Umberto “guerrigliero sistematico”. Mi pare una definizione azzeccata, anche per la coerenza del suo operato, che poi si è spinto, dagli anni Settanta fino ai Novanta, sul fronte della multimedialità pura, tralasciando il sistema dell’arte, con le collaborazioni continue con Olivetti e IBM. Grazie al fondamentale apporto di Laura Cherubini negli anni Novanta, Bignardi è stato recuperato da una lunga fase di silenzio, con una mostra alla Sapienza che ha restituito attenzione alla pluralità del suo lavoro. Pur partecipando sostanzialmente ai momenti più significativi degli anni Sessanta in Italia, anche con la Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis e poi con L’Attico, e ricevendo attenzioni critiche di primo piano da Boatto, Calvesi e molti altri, la figura di Umberto rimane autonoma, seppur connessa con la Scuola di piazza del Popolo e con i suoi artisti, con i quali partecipa alle mostre di quegli anni, insieme ad altri suoi compagni di strada, Kounellis e Pascali. Se Festa e Angeli attingevano a un repertorio iconografico molto legato a Roma, pensiamo al Giudizio universale o alle lupe capitoline, Schifano oscillava tra tangenze legate alle icone americane della Pop, Coca Cola ed Esso, e intense e straordinarie riletture della storia dell’arte italiana e del paesaggio. Umberto preleva invece immagini dai mass media e, come suggeriva Forrest Williams nel testo di presentazione della sua personale alla Tartaruga nel 1963, dall’iconografia della scienza, prediligendo il disegno e il collage. Sono quelle opere a far drizzare lo sguardo di Sargentini, che ringrazio pubblicamente per aver accettato di dialogare con Umberto e me in Galleria Bianconi il prossimo 3 marzo, a cinquant’anni dalla loro collaborazione».
La mostra si concentra su quattro anni, dal 1964 al 1967. Come mai questa scelta? Che cosa avviene in quegli anni?
L.M. «Il progetto espositivo si concentra su quattro specifici e paradigmatici, anni, assolutamente densi di indagini sperimentali, contrassegnati da un’attività espositiva intensa, in contesti oggi ritenuti imprescindibili per la lettura delle vicende italiane e internazionali di quello specifico periodo. Ci si riferisce soprattutto alla sua collaborazione con L’Attico di Fabio Sargentini, galleria dalla vocazione estremamente sperimentale, della cui scuderia Bignardi è stato il primo giovane artista, nel momento in cui è già avvenuto il passaggio di consegne tra la direzione di Bruno Sargentini a quella del figlio Fabio, che lo prese con sé prima ancora di coinvolgere Pascali e Kounellis fino al 1966 rimasti legati alla galleria La Tartaruga. In questi anni avvengono delle rivoluzioni cruciali nella sua ricerca, si concretizzano le intuizioni sulla multimedialità, il disegno diviene ulteriormente una pratica imprescindibile, e avviene un passaggio nella impostazione stessa delle immagini, anche quando opta per la pittura, ma su cristallo e accompagnata da faretti, che la moltiplicano, trasformandola. Ci rendiamo infatti conto che non è solo l’immagine a interessare l’artista, ma una perlustrazione delle sue potenzialità all’interno dello spazio in cui procedono, ancora una volta, il rapporto tra la forma e il contesto, inteso anche nella sua accezione dinamica. In Galleria Bianconi l’artista espone il suo Prismobile, con i corpi femminili che mutano fisionomia, proprio come accadeva alle pubblicità in movimento che iniziavano ad apparire sulle strade di Roma. Nel 1967 arriva il Rotor: non si può più tornare indietro, il segno e i collage divengono movimento reale, che si estrude in un ambiente coinvolgendo lo spettatore, includendolo, come sta accadendo in queste settimane in Galleria Bianconi. A torto il suo impegno successivo per IBM e Olivetti è stato considerato estraneo all’ambito artistico, a mio parere invece è la realizzazione tangibile di un’utopia, l’arte al servizio dell’industria, l’industria a servizio della ricerca artistica».
Come si articola il percorso espositivo?
R.B. «La mostra intende dar vita a una relazione diretta fra il visitatore, le opere e la storia di Umberto Bignardi. Il percorso è pensato in maniera da creare un’atmosfera immersiva e straniante al tempo stesso. Prima ancora di entrare in galleria, sulle vetrine il grande intervento disegnativo con le scimmie tratte da Muybridge da un lato e, dall’altro, lo squarcio visivo e luminoso che si apre sulla stanza dedicata al Fantavisore (1965), creano un particolare effetto “Stargate” che trasporta il visitatore nell’universo pop-avanguardistico di Bignardi. Entrando il visitatore è completamente avvolto dalla luce e dalle immagini che vengono proiettate e riflesse dal Rotor (1967), primo esempio di cinema espanso, che, come scrive Germano Celant nel 1967 in occasione della mostra realizzata alla Galleria La Bertesca di Genova, trasforma lo spazio in un “im-spazio”. A mano a mano che procede, il visitatore è accompagnato da uno studiato gioco di luci e ombre, difronte ad una grande installazione murale in cui si stagliano, come in una macchina del tempo, fotografie di vita privata, di inaugurazioni e allestimenti, documenti, come cataloghi e inviti, nonché un attento epistolario con personaggi quali Germano Celant, Mario Schifano, Claudio Cintoli, documenti questi che ritraggono momenti di vita privata e pubblica di Umberto Bignardi in anni, gli anni’60, in cui si sono poste le fondamenta di un mondo nuovo, rivoluzionario, nulla sarebbe più stato come prima tanto nell’arte che nella vita. Il percorso termina nel RAW SPACE, la parte intima, sotterranea e più sperimentale della galleria, dedicata al site-specific. Nella stanza finale il visitatore è colpito, quasi abbagliato, da due grandi cristalli dipinti Grande Gaine e Sud -est Asia (1965), visibili al pubblico per la prima volta dopo la personale all’Attico di Sargentini del 1966, in cui la luce li colpisce trasformandoli, la pittura trasmuta in altra pittura, che diviene colore e spazio».