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Se le città fossero dei corpi viventi, in questi giorni starebbero tirando un sospiro di sollievo.
Ma non lo sono. E vederle così vuote, malinconiche, evocatrici di una metafisica restituita dall’assenza dell’umano e dall’imperio delle forme architettoniche se gratifica lo sguardo colto riportando alla mente quadri De Chirico, Carrà, Sironi e certo anche di Hopper, ma anche, per fare un esempio forse meno colto, la New York deserta del film Vanilla Sky di Cameron Crowe, lascia l’animo ancora più appesantito.
E come potrebbe essere altrimenti? Le città sono il luogo pulsante della nostra vita, nel bene e nel male il teatro della nostra storia e delle storie che immaginiamo e raccontiamo, dei musei, delle gallerie e degli spazi pubblici nei quali l’arte visiva ricostruisce le loro e le nostre immagini, dilatandone il senso e includendovi storie di altri luoghi e di altre vite, rielaborando connessioni in un mondo che fino a ieri pensavamo letteralmente “esser-sottomano”, per usare un’espressione del Martin Heidegger di Essere e tempo.
Meglio non vederle città così. Stare in casa, oltre che a salvarci dal contagio, ci evita la visione brutale dello stato delle cose, delle condizioni d’impoverimento nel quale versa oggi e all’improvviso il nostro reale, mentre ci ribaltiamo come mai prima nel digitale che si fa più ricco ma anche più impalpabile per il vuoto che sta caratterizzando la controparte analogica.
La realtà che si separa da noi
È dunque questa l’eccezione che stiamo vivendo, e non quella che Giorgio Agamben ha denunciato qualche giorno fa (ma sembra un secolo) come atto coercitivo del potere nei confronti della società attraverso una medicalizzazione della politica e della democrazia. Un’eccezione, o meglio un’eccezionalità, che consiste in una realtà che si separa improvvisamente e drammaticamente da noi, ma questa volta non come conseguenza di un’analitica presa di distanza da essa, che è presupposto alla possibilità di comprenderla e trasformarla, ma per un obbligato abbandono che al momento è l’unica garanzia alla nostra buona salute e purtroppo in molti casi alla sopravvivenza.
Ma nel frattempo le città continuano a stare lì, non sono scomparse, anche se deprivate di quel senso che solo noi possiamo darle e quindi di qualsiasi senso fino al nostro ritorno in esse.
E noi senza dubbio torneremo, così come torneremo all’arte e alla vita, ma di certo torneremo cambiati. La memoria questa volta sarà un guardiano feroce, e come un cane infuriato dalla cattività ci abbaierà contro ogni volta che penseremo che la semplicità del mondo attuale e del nostro vivere in esso siano gratuiti. Non lo sono e ce lo ricorderemo. Come ci ricorderemo che nelle rare e necessarie uscite abbiamo imparato a cambiare lato della strada incontrando qualcun altro come noi mascherato, a stare a distanza dagli altri e a scambiare idee ed emozioni, a guardare opere d’arte, sentire concerti, parlare con i propri studenti, solo per vie digitali. Ricorderemo che tutte queste costrizioni e perdite hanno limitato una parte di quel nostro “agire” che Hannah Arendt, in Vita Activa. La condizione umana, poneva a fondamento dell’esistenza dell’uomo, della politica e della storia. Un “agire” che si attua necessariamente in quello spazio pubblico nel quale le persone entrano in relazione e solo all’interno del quale assume “carattere di rivelazione […] come della capacità di produrre vicende e storie che insieme formano la fonte da cui scaturisce il significato che illumina l’esistenza umana”.