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Exibart ha chiesto ad alcuni tra i più affermati artisti indiani che lavorano tra Mumbai (Dhruvy Acharya, Atul Dodhya, Archana Hande, Jitish Kallat) e New Delhi (Raqs Media Collective e Mithu Sen) e a un’artista che vive tra L’India e gli Stati Uniti (Annu Palakunnathu Matthew) di raccontare come stanno vivendo, dal punto di vista professionale e personale, questo momento così straordinario e drammatico e in che modo il loro Paese potrà affrontare l’emergenza Covid-19.
Il 24 marzo, alle ore 20, il Primo Ministro indiano Narendra Modi è apparso in tv per annunciare che, a partire da mezzanotte dello stesso giorno, tutta l’India – 1 miliardo e 300 milioni di abitanti – sarebbe stata messa in quarantena: chiusi negozi e mercati e vietati tutti i tipi di trasporto, sia pubblico che privato. Dando inizio così, con un preavviso di sole quattro ore, al più grande e più severo lockdown conosciuto nella storia del mondo.Con un risultato devastante sulla popolazione, come afferma la scrittrice Arundhati Roy in un recente articolo pubblicato sul Financial Times: «La quarantena ha avuto lo stesso effetto di un esperimento chimico, che all’improvviso illumina cose prima nascoste. Nello stesso momento in cui negozi, ristoranti, fabbriche e l’industria edile stavano chiudendo, le nostre città e le nostre megalopoli hanno iniziato a cacciare i loro cittadini della classe operaia, i loro lavoratori migranti, come fossero un mucchio di oggetti di cui sbarazzarsi. (…) La quarantena, indotta per assicurare il distanziamento sociale, ha avuto l’effetto opposto: un ammasso di persone a livelli inimmaginabili (…). Le strade principali potranno anche essere vuote, ma i poveri sono confinati in angoli angusti all’interno delle baraccopoli. (…) Al 2 aprile in India ci sono quasi duemila casi confermati e 58 morti. Queste cifre sono sicuramente inaffidabili perché basate su terribilmente pochi test».
«A 1,3 miliardi di abitanti è stato detto che non possono muoversi. E non c’è alcun sistema in atto per prendersi cura delle necessità quotidiane di chi non è ammortizzato dal privilegio di classe. Abbiamo visto migliaia di persone camminare silenziosamente per le strade in un esodo di massa. Vedere questa carovana umana, sapendo che camminerà per centinaia di chilometri, contro la forza di uno stato violento, è straziante», sostengono i Raqs Media Collective. «Questa pandemia – continua Dhruvi Acharya – sta mettendo in luce come molte delle nostre priorità fossero sbagliate, come scegliere l’avidità, la guerra e il terrore invece che l’ambiente, l’istruzione e la sanità. Ma gli indiani hanno anche un forte senso di comunità e, per quanto possibile, le persone si aiutano a vicenda. Nella maggior parte di Mumbai i venditori di verdure vengono agli angoli della strada e la gente aspetta in fila con maschere e guanti, farmacie e negozi di alimentari sono ancora abbastanza riforniti. I più facoltosi (industriali, attori, ma anche gente comune) stanno donando generosamente per aiutare i più bisognosi».
La preoccupazione che emerge con maggior forza dalle interviste è la consapevolezza che questa pandemia sia terribilmente discriminatoria. «La quarantena e l’allontanamento sociale, per quanto necessari, sono anche lussi sociali», afferma Mithu Sen. Anche Jitish Kallat sottolinea che rispettare le regole date è quasi impossibile quando «una gran parte della popolazione urbana vive in una situazione di sovraffollamento in cui è molto difficile attuare un vero distanziamento sociale, dove l’approvvigionamento idrico e i servizi igienico-sanitari sono condivisi da un gran numero di persone».
Allora questa situazione di disagio, di forte preoccupazione, di paura come si riflette sul lavoro degli artisti? Si delineano due atteggiamenti apparentemente opposti: chi è rimasto annichilito, “congelato” dagli eventi come ci ha detto Archana Hande, chi invece avverte l’urgenza di comunicare la straordinarietà e la drammaticità del momento attraverso il proprio lavoro.
«Vedo questo come un periodo di riflessione che non so ancora come potrà manifestarsi nel mio lavoro», sostiene Kallat al quale fa eco Mithu Sen: «è un momento per tutti noi artisti per meditare e riflettere sulla nostra pratica e il suo rapporto con le persone e lo spazio. Siamo intrappolati in uno stato intermedio: dopo esserci allontanati dalla normalità delle cose, non abbiamo ancora una visione chiara di come sarà il futuro».
Annu Matthew che era da poco tornata negli Usa dopo un soggiorno di sei mesi in India quando è iniziato il lockdown in America, ammette che «con la crisi sullo sfondo, non riesco a concentrarmi sul mio progetto Unremembered sui soldati indiani della seconda guerra mondiale. Mi distraggo e c’è una sensazione di impotenza a cui rispondo pensando che l’unica cosa che si può fare è seguire le regole. Lavorerò su questa pandemia? Non credo. Ma influenzerà sicuramente il modo in cui condividerò il mio lavoro in futuro al di fuori degli spazi convenzionali delle gallerie».
Il lavoro di Dhruvi Acharya, invece, è sempre stato incentrato sugli eventi e le esperienze, le più positive come le più drammatiche. «In questa situazione stiamo assistendo a vari modi in cui reagisce l’essere umano: generosità, altruismo, stupidità, paura, disprezzo della scienza, gentilezza, unità, razzismo. E poi c’è il drastico cambiamento nella nostra vita quotidiana: la distanza sociale e l’isolamento. Tutto questo sta già influenzando il mio operato».
Per i Raqs Media Collective che lavorano sul concetto di tempo e sul senso di interconnessione: «Il virus cambia il modo in cui sperimentiamo entrambe le cose. Cambia il modo in cui pensiamo ad un semplice atto come respirare. Nulla può essere dato per scontato ora. Né nell’arte, né nella vita».
[Il reportage continua nelle prossime puntate, con le interviste a Mithu Sen, Archana Hande, Athul Dodya e Raq Media Collective]