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Nel 1918, tra la primavera e l’inverno, l’influenza spagnola fece 600mila morti sull’intero territorio italiano, ancora in buona parte arretrato a livello sanitario, sociale ed industriale. In quel caso, come per l’attuale epidemia di Covid 19, si trattava della più spaventosa pandemia della storia, che provocò la morte di circa 50 milioni di persone in tutti il mondo, che contava allora una popolazione di circa 2 miliardi. A rigor di logica una tragedia di questo genere avrebbe dovuto avere in Italia effetti disastrosi sul mondo dell’arte, considerando anche la concomitanza con la guerra mondiale. Invece avvenne esattamente il contrario. Cito solo alcuni fatti essenziali: a Roma si apre la Casa d’Arte Bragaglia con una mostra personale di Giacomo Balla, viene fondata la rivista Valori Plastici e al teatro dei Piccoli va in scena lo spettacolo Balli Plastici, con i costumi di Fortunato Depero. Carlo Carrà dipinge l’Ovale delle apparizioni, Giorgio Morandi le sue prime nature morte metafisiche, mentre in Europa Costantin Brancusi realizza la Colonna senza fine, Kazimir Malevich dipinge Composizione Suprematista bianco su bianco e Amedeo Modigliani il Ritratto di Leopold Zborowski.
Cosa succederà ora, che siamo entrati nella fase postCovid19? Pochi giorni fa il ministro Franceschini ha annunciato che i musei riapriranno nel corso del mese di maggio, il 18, insieme ad archivi e biblioteche. I nostri musei sono stati chiusi per 78 giorni, insieme a mostre epocali come l’antologica di Raffaello alle Scuderie del Quirinale. Un lockdown inaspettato che ha provocato danni economici senza precedenti in un settore particolarmente fragile nella nostra società, che negli ultimi decenni ha marginalizzato la cultura, privilegiando settori più popolari ed accessibili come il calcio e il cibo nell’indifferenza generale del mondo politico, fatta eccezione di Franceschini, unico uomo politico italiano che abbia deliberatamente scelto il Ministero dei Beni Culturali, sempre considerato dai suoi colleghi la Cenerentola dei dicasteri italiani.
Settantotto giorni dopo
Alla fine di questi 78 giorni ci troveremo di fronte a due fondamentali novità, entrambe generate dalla pandemia. La prima riguarda la nuova “dittatura del digitale”, che si è definitivamente affermata come narrazione virtuale, che potrebbe in un futuro molto prossimo sostituire la visita fisica a mostre e musei: del resto la programmazione digitale è la strada che la maggior parte delle istituzioni museali pubbliche e private hanno scelto per dialogare col il proprio pubblico, come puntualizza l’ottimo articolo di Raja El Fani Coronavirus: siamo in guerra senza un progetto Manhattan? su questa testata. Una dittatura non esente da rischi per la democrazia, come suggerito dall’articolo di Maria Castellitto Coronavirus, la Storia è tornata. E non possiamo più scappare, pubblicato su Corriere.it: “Il mondo virtuale, falsamente animato, fabbricatore di desideri e mostri, si sta rivelando semplicemente per ciò che è sempre stato: fuori luogo, vuoto anche se pieno, privo di spirito evocativo, incapace di raccogliere e restituirci «una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita». E arriverà, tra poco, il momento in cui non potremo più scappare”, scrive la Castellitto. “Non potremo più scappare perché la Storia è tornata. È maestosa, è violenta, è centrale. Esaspera le conseguenze di tutto ciò che siamo stati fino ad adesso: fasulli, troppo contemporanei, in vetrina nel falso mito del progresso. Smaschera la ferocia del mondo in movimento, in realtà statico e avviato all’autodistruzione”.
Dalla massa alla comunità
La seconda novità è di ordine socioantropologico, e riguarda il passaggio dalla condizione di massa a quella di comunità. Nell’era preCovid19, la massa era considerata dalle istituzioni culturali un valore: le code per visitare una mostra, un museo o un monumento erano segni di un successo sia numerico che, soprattutto, economico. Ora il concetto di massa si trasferisce sul virtuale, sotto forma di visualizzazioni, like o followers: nel mondo fisico viene sostituito dalla comunità, composta da piccoli gruppi di persone legate da un interesse o una passione comune. Come negli anni Settanta, si tornerà forse a condividere esperienze culturali in diretta, per poi scambiarsi opinioni e commenti.
E gli artisti? Grandi assenti dal dibattito mediatico generale, in questi giorni. L’Italia dei media preferisce affidarsi a scienziati, medici, o personaggi di spettacolo: persino gli scrittori hanno più visibilità; unica e lodevole eccezione l’inserto Arte de Il Foglio, curato da Francesco Stocchi, che ha chiesto a 32 artisti italiani di diverse generazioni di riflettere sul “presente sospeso”, con risultati assai interessanti. Agli artisti di oggi spetta il compito di interpretare questo cataclisma con opere incisive e toccanti, come fecero i vostri colleghi un secolo fa. Mutatis mutandis, sarebbe davvero auspicabile che la complessità di questi giorni possa ispirare opere d’arte di portata epocale.