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Idee per il futuro è la nuova rubrica di exibart, per dare la parola agli artisti e immaginare, insieme, nuove idee per il futuro, oltre che per provare a capire come realizzarlo, dopo l’emergenza Covid-19: l’appuntamento di oggi è con Giacomo Zaganelli.
La biografia di Giacomo Zaganelli
Giacomo Zaganelli investiga la dimensione sociale e pubblica dello spazio, inteso come risultante di territorio, ambiente e paesaggio. Artista, curatore e attivatore di progetti culturali, nel 2005 fonda a Firenze :esibisco., un collettivo atipico, che coordina per dieci anni. Tre anni dopo, sempre a Firenze, realizza l’installazione monumentale Non a Tutti Piace L’Erba, creando un prato temporaneo per la città. Nel 2010 lancia il progetto La Mappa dell’Abbandono (tutt’ora in progress), una ricerca pioniera sul tema del patrimonio dismesso, nata con l’obiettivo di sensibilizzare cittadini e amministrazioni in merito al potenziale offerto dagli immobili vacanti. Nel 2015 fonda Ambienta, un progetto di residenza tra arte e natura nel sud della Toscana. Nel 2018, assieme alla casa editrice Centro DI, promuove la nascita della collana editoriale XXI.Guide d’Artista, l’Italia raccontata attraverso le ricerche degli artisti nei propri territori, un volume per ogni regione.
Dal 2015 lavora con continuità a Taiwan e in Giappone. Tra i suoi recenti progetti: le esposizioni personali Grand Tourismo alle Gallerie degli Uffizi (2018/2019) e Superficially, al Museum of Contemporary Art Taipei (2018); la partecipazione alla Setouchi Triennale in Giappone e al Grand Tour d’Italie, promosso dal Mibac, nel 2019.
Tre cose che chiederesti per far fronte al futuro, come professionista dell’arte.
«Prima ancora che come professionista dell’arte ti voglio rispondere come cittadino. In questi giorni vicini alla ricorrenza della Liberazione stavo rileggendo gli articoli della Costituzione Italiana. Un documento che oggi ha quasi completamente perso ogni significato, valore e riferimento, ma che è ciò su cui si fonda la nostra giovane Repubblica. Già nel ’55 Piero Calamandrei – che quella carta contribuì a redarla – , osservando quanto i cittadini fossero sempre più indifferenti nei confronti della cosa pubblica, affermava che, per far sì che la Costituzione potesse conservare il suo valore collettivo e fondativo, era necessario “l’impegno, lo spirito e la responsabilità di mantenere vive quelle promesse” su cui era stato rifondato il nostro paese. Ora, che di anni ne sono passati altri sessantacinque, si fa presto a comprendere perché quei principi sono stati lentamente quasi del tutto dimenticati, in nome di uno stile di vita sempre più individualista.
Ma la società, come sappiamo, è un insieme di individui uniti da interessi comuni di cooperazione e collaborazione. Quindi credo che, per far fronte al futuro, dovremmo partire da questa considerazione e dall’imparare a memoria il secondo punto dell’articolo 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Questa è una frase fondamentale per tenere a mente il passato, leggere il presente e guardare al domani. Personalmente non sono portato a chiedere agli altri, ma piuttosto a proporre, a prendere l’iniziativa e quello che propongo in questa sede – anche se potrebbe apparir bizzarro a molti – è di riavvicinarsi alla cosa pubblica, alla dimensione sociale e politica, e di cominciarlo a fare, identificando collettivamente quelli che sono gli attuali ostacoli di ordine economico e sociale da rimuovere. Nessuna tassazione al di sotto di determinate soglie di reddito (mi sto riferendo a tutte le categorie di lavoratori)? Un incremento esponenziale delle risorse da destinare alla Sanità, all’Istruzione e alla Cultura? Nel 2017 l’Italia ha speso circa 64 milioni di euro al giorno per la difesa e meno di un milione per la ricerca, questo mi sembra a tutti gli effetti un ostacolo allo sviluppo. L’azzeramento dell’IMU qualora si concedano i propri spazi in disuso per lo sviluppo di progetti culturali e sociali, o viceversa un aumento esponenziale qualora gli spazi vengono reiteratamente lasciati sfitti creando solo disagi per la comunità? Le proposte potrebbero essere numerose e alcune potrebbe avere senso portarle fino in fondo. Parliamone».
Ci puoi raccontare un motivo per cui, secondo te, ancora oggi in Italia si fatica a riconoscere i diritti degli artisti come categoria professionale?
«Ma se facciamo fatica a riconoscere i diritti elementari dei lavoratori in generale? Se agli insegnanti – la cui missione è idealisticamente tra le più alte: educare e formare la classe futura – viene riconosciuto a parità di grado, uno degli stipendi più bassi d’Europa, così come agli infermieri e ad altre professioni essenziali dell’apparato sociale, mi chiedo quanto possa essere ancor più difficile farlo con una categoria come quella degli artisti, che a tutti gli effetti non esiste nell’immaginario collettivo perché indefinibile e apparentemente poco utile. Io per primo, se durante un incontro con persone che si occupano d’altro, per semplificare dico di essere un artista, la maggior parte dei miei interlocutori mi immagina immediatamente come un pittore o uno scultore e mi chiede con che galleria lavoro. Ma io non ho mai dipinto, né scolpito, ne lavorato con una galleria. Eppure vivo di questo. Alla fine nessuno ci capisce niente.
Comprendere le potenzialità che offrono gli artisti oggi in termini di partecipazione, di coinvolgimento, di visione, di alternativa – e mi riferisco agli ambiti culturali, sociali, economici, formativi, educativi – rappresenta la sfida maggiore a cui è chiamata la collettività sul piano del riconoscimento della figura dell’artista come categoria professionale percepita.
Questo processo però deve essere ancora prima attivato dall’operare stesso degli artisti che, anziché concentrare le proprie attenzioni sul guadagnarsi da vivere (quando ci riescono!) con un fine meramente commerciale, potrebbero volgere lo sguardo anche verso altri orizzonti, ad esempio collaborando con i territori, le comunità, con le imprese, con le scuole, in un’ottica di welfare generativo.
Perché l’artista come figura professionale venga accettata, deve essere riconosciuta la sua utilità sociale, e questo non solo dalle istituzioni ma anche dalla collettività stessa. Potrebbe sembrare scontato – oltretutto visto il nostro passato – ma purtroppo non lo è, e ciò va ricercato nel fatto che la pratica artistica col passare del tempo si è via via sempre più sconnessa dalla vita in senso ampio e, soprattutto, dal rapporto con le persone.
Poi resta il punto se sia necessario o meno riconoscere gli artisti come figure professionali. Molti di noi prendono la questione con fin troppa leggerezza. Essere artisti è una vocazione, fare gli artisti una tendenza passeggera».
Parliamo dei danni, oltre a quelli morali. A quali progetti stavi lavorando prima di questo isolamento ma, soprattutto, prevedi che si concretizzeranno o dovranno essere abbandonati?
«A svariate cose, tra cui una nuova commissione da parte di una biennale in Asia, un intervento pubblico per un museo fiorentino e alcuni progetti, sempre relativi alla sfera pubblica, qui a Berlino. Per ora sono tutti posticipati poi si vedrà. Ma avendo sposato la filosofia del “da cosa nasce cosa”, devo ammettere che situazioni come questa, più che preoccuparmi mi stimolano. Il continuo confronto con improvvise circostanze critiche mi incentiva a reagire, a sperimentare, ad azzardare. È sempre stato così e lo è stato anche questa volta. Infatti, da poco, assieme ad Angelika Stepken, ho dato vita a OnLife. Un esperimento improvviso che ha coinvolto quattordici artisti europei e asiatici con l’obiettivo di presentare una mostra ex novo – in un momento in cui nessuno lo stava facendo –, concepita per essere fruita online e ospitata dallo spazio web, ampliato per l’occasione, di un’istituzione culturale internazionale, quale è Villa Romana.
Non l’adattamento di una mostra reale allo spazio virtuale, tantomeno il tour virtuale di uno spazio reale. Ma una mostra pensata come riflessione sull’oggi e visitabile nell’unico spazio pubblico al momento disponibile. Dall’ideazione alla pubblicazione sono passati solo dieci giorni e ammetto che siamo davvero sorpresi dal riscontro di pubblico, il quale è andato ben oltre le migliori aspettative.
Il punto era proprio quello di investigare le potenzialità di un’iniziativa del genere che, prendendo ispirazione dalle straordinarie condizioni attuali, mira a far accadere le cose andando oltre le strutture, gli schemi e le gerarchie tipiche dell’ordinario, dimostrando così che si può fare».