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Il lavoro culturale ai tempi del Covid-19: risultati e commenti al nostro sondaggio
Attualità
di Roberta Pucci e Mario Francesco Simeone
Oggi, giorno in cui si celebrano i 50 anni dello Statuto dei lavoratori, la legge 20 maggio 1970 n.300, pubblichiamo i risultati del nostro sondaggio dedicato al lavoro culturale ai tempi del Covid-19, con un commento di Roberto Ciccarelli, giornalista, filosofo, blogger.
Aprimmo il sondaggio il 27 marzo. Erano i giorni più intensi dell’emergenza e risultava già evidente che la questione non interessava solo l’ambito della sanità pubblica e della salute privata. Le strade erano immerse in un silenzio surreale ma le discussioni sul presente e sul futuro stavano divampando sulla rete, animando il dibattito sulle pagine dei social network (la prima cellula di AWI – Art Workers Italia è partita da un gruppo su Facebook). Molte criticità dovevano venire allo scoperto e riguardavano tutti gli snodi della filiera produttiva, economica, sociale e relazionale, in ogni ambito.
In questo contesto, fu subito chiaro che il settore della cultura e dell’arte avrebbe sofferto più degli altri. In fondo, come poi confermato dalle risposte al sondaggio, l’emergenza era nell’aria da tempo. Tutt’altro che un evento improvviso e imprevedibile, la crisi del lavoro culturale ai tempi del Covid-19 è solo l’aspetto più evidente di una lunga e complessa serie di processi, rintracciabili peraltro anche al di là dello specifico settore di riferimento.
Paradossi e incertezze: il mondo del lavoro culturale
Salari bassissimi e inversamente proporzionali rispetto alla formazione, incarichi intermittenti e precari, contratti inaffidabili e poco tutelati: l’identikit di un classe trasversale di persone sulla soglia della povertà. È questo lo scenario emerso dai risultati del nostro sondaggio dedicato al lavoro culturale ai tempi del Covid-19. Ma sarebbe fuorviante riferirsi esclusivamente agli ultimi mesi, visto che la pandemia ha solo reso lampante una lunga e articolata serie di criticità che da anni attanagliano il mondo dell’arte e della cultura. Le radici di questo male si estendono in maniera rizomatica su tutta la filiera e comprendono vastissimi segmenti di figure professionali, anche altamente specializzate.
A rispondere al sondaggio 75% di donne e 25% di uomini, di cui il 65% di età compresa tra i 25 e i 45 anni e il 35% tra i 45 e i 70. Cinque le città più rappresentate: Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli. Oltre ad artisti, curatrici e docenti, hanno preso parte all’indagine anche registar, galleristi, responsabili della comunicazione e giornaliste, imprenditori e production manager. Una platea vasta e, di conseguenza, anche difficilmente inquadrabile negli attuali strumenti di tutela del lavoro, riferiti perlopiù a lavoratori di specifici settori. Qualunque proposta dovrebbe partire proprio dall’evidenza di questa estrema eterogeneità.
Da notare poi che molti svolgono due o più professioni o ricoprono differenti ruoli. Di conseguenza, vastissima è la galassia dei contratti: tra tirocini, stage, co.co.co e partita iva. Quasi il 35% degli intervistati lavora come freelance, le posizioni che sono state immediatamente tagliate dai musei. Il 22,3% invece lavora con contratto a tempo indeterminato, in particolare operatori museali e insegnanti con età più avanzata.
Circa il 55% degli intervistati svolge una seconda attività lavorativa, sia nell’ambito culturale, come docenti, curatori, contributor e giornalisti, mediatrici culturali, uffici stampa e grafici, che in settori affini, come traduttori ed editor. Anche per questi secondi impieghi, la maggior parte lavora con Partita Iva o con prestazioni occasionali (quindi non superando la soglia di 5mila euro all’anno).
Una delle incongruenze più evidenti è la disparità tra formazione e aspettativa di guadagno: da una parte, il 33% degli intervistati è in possesso di titoli post laurea, dall’altra il 40% degli intervistati ha dichiarato di guadagnare meno di mille euro al mese. Sebbene la maggior parte degli intervistati svolga due o più lavori, il 40% non arriva a 1000 euro al mese, mentre il 32% non supera i 1500 euro. Solo il 6% guadagna tra 2000 e 2500 euro e un altro 6% supera i 2500 euro al mese.
Dal decreto dell’8 marzo, per il 63% degli intervistati il lavoro non si è interrotto e il 75% di questi ha continuato in modalità smartworking, mentre il 37% circa ha smesso di lavorare. Per quasi il 90% dei lavoratori le modalità di lavoro sono cambiate e per un altro 90% l’annullamento degli eventi ha causato diminuzione degli impieghi, con conseguente incertezza della retribuzione o addirittura soppressione della stessa.
La sensazione più comune nei lavoratori è quella di una totale assenza di tutele. Se dal punto di vista sanitario le aziende hanno supportato i propri dipendenti – il 52% degli intervistati ha dichiarato soddisfacenti misure di sicurezza sul luogo di lavoro –, sull’aspetto salariale le aziende non hanno assicurato le tutele necessarie. Il 60% circa degli intervistati si sente tutelato poco o affatto dalla propria azienda e molti hanno richiesto il bonus di 600 euro dell’Inps. Una scarsa sensazione di tutela nella fase di emergenza si traduce in una diffusa percezione di insicurezza – quasi l’80% dei lavoratori intervistati si è dichiarato insicuro e abbastanza insicuro – nella convinzione che la loro situazione lavorativa si modificherà in peggio.
«Misure a lungo termine, prima che sia troppo tardi»: il commento di Roberto Ciccarelli
Il problema dell’opacità del sistema dell’arte e del divario tra quantità e qualità di lavoro e retribuzione è una storia vecchia, e questo momento di crisi ha fatto emergere il caos preesistente, alimentando anche le speranze di trovare una soluzione al problema. Quello che sembra mancare, invece, nei due provvedimenti del Governo, è una visione a lungo termine.
Roberto Ciccarelli, giornalista, filosofo e blogger per il Manifesto, commentando i risultati della nostra indagine ha sottolineato che «I provvedimenti di assistenza potrebbero essere rinnovati fino a una scadenza di altri pochi mesi, di emergenza in emergenza senza alcuna prospettiva, al momento, di strutturazione di un sistema sociale e di una visione di welfare universalistico individuale e contemporaneo».
Ciccarelli tuttavia ci fa notare che «sono stati stanziati, per la prima volta nella storia della repubblica, ammortizzatori sociali per una parte della platea di lavoratori autonomi, in particolare iscritti alla gestione separata INPS e a quelli iscritti agli albi professionali». L’emergenza covid-19, continua Ciccarelli, «ha permesso, ripeto per la prima volta in assoluto, di avviare una sperimentazione davvero a livello di massa. Questo è un patrimonio da salvaguardare proponendo finalmente la trasformazione del welfare in senso universalistico, individuale, incondizionato, indipendentemente dalla tipologia contrattuale e dalla tipizzazione giuridica del lavoro e del non lavoro. Questo elemento è decisivo per coprire un altro settore fondamentale dove il lavoro culturale è altrettanto diffuso. Parlo dell’economia informale dove, al netto del lavoro nero assoluto, si alternano forme ibride di lavoro grigio e sommerso, intermittente, autonomo e parasubordinato».
Parlando di futuro Ciccarelli ci ricorda che «la ministra del lavoro Nunzia Catalfo ha annunciato una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali dopo l’emergenza. Potrebbe essere troppo tardi. Questa emergenza, per la natura del virus, finirà tra uno o due anni, quando arriverà un vaccino, se arriverà. Tra uno o due anni tutti i possibili destinatari di questa eventuale riforma saranno ridotti al default e alla povertà assoluta. Si rischia un massacro sociale di dimensioni sconosciute». Una soluzione possibile sono «Le campagne per il reddito di quarantena e la petizione del basic income network Italia (Bin Italia) per l’estensione senza vincoli e in termini incondizionati del “reddito di cittadinanza”, portato a 780 euro uguali per tutti, e a titolo individuale, in modo strutturale, nell’ambito di una riforma universalistica del welfare, che oggi sembra essere l’unica soluzione per affrontare l’ondata della crisi sociale che si prepara».