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404.01: Mariano Silletti – Postille su Demikhov
Primo appuntamento del nuovo programma per l’arte contemporanea di Porta Coeli Foundation. Prima antologica sul fotografo Mariano Silletti, con in mostra i progetti “Monte Maggiore” e “Ludovicu”. Un tributo a ciò che inaspettatamente resta di umano lungo la strada di un’inevitabile progredire.
Comunicato stampa
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In un film del 2019 Elio Germano interpreta il ruolo di un uomo che per inspiegabili motivi è soggetto alle fluttuazioni del proprio corpo nell’aria. Tra patologia indicibile e facoltà eccezionale, cercherà una propria possibile collocazione nella società attraverso la formula che un gretto impresario gli cucirà addosso per farne un fenomeno di spettacolo: L’uomo senza gravità, da cui il titolo dell’opera diretta da Marco Bonfanti. Un ruolo da Freaks che però ben presto finirà per stargli stretto e che lo condurrà per contrappasso alla ricerca dell’anonimato e dell’emarginazione.
Da Giorgio Vasari ai profili promozionali su Instagram, le biografie degli artisti sono sempre state cosparse di più o meno facile aneddotica. E a tal proposito quella che stiamo per affrontare potrebbe certamente essere una congiuntura feconda. Anche in questo caso una formula prova a sintetizzare una caratteristica peculiare in una stramberia, una bizzarria, un’anomalia da cui far derivare forzosamente ogni aspetto saliente della vita e dell’opera del protagonista. La formula è quella del fotografo-carabiniere, spesso usata per descrivere la natura ibrida dell’identità professionale di Mariano Silletti, perché di indubbia presa sugli immaginari. Quella facoltà di trasgredire – o quantomeno di divagare – tipica di una funzione creativa, associata all’immagine di un membro delle forze dell’ordine, risulta di uno stimolante esotismo e tende a umanizzare, a singolarizzare una figura altrimenti troppo facile da ridurre esclusivamente alla propria funzione, categoria o uniforme. Ma è fuori dall’aneddotica e per vie che pertengono pienamente ai codici contemporanei del fotografico che la professione di carabiniere acquisisce qualcosa di strutturante per il linguaggio che Silletti va delineando: per il proprio sistema di segni, per le proprie drammaturgie, per la propria propensione a intercettare, intuire e costruire racconti.
Per il primo appuntamento del programma di 404 in Porta Coeli Foundation abbiamo deciso di lavorare a una mostra antologica su Mariano Silletti: meno di un decennio nell’ambito della fotografia trascorso sempre con atti misurati, parsimoniosi, ma potenti e di bruciante maturità. Un percorso che ha già ricevuto troppi riconoscimenti internazionali senza che si sia trovato un momento di sintesi in cui riflettere complessivamente sulle mitologie messe in scena da Silletti nei luoghi e con gli abitanti di quelle narrazioni. Ci è sembrato urgente far accadere l’inevitabile, come da qui in poi 404 si proporrà di fare regolarmente: l’incontro tra la fatica di un lavoro di controversa immaginificazione sulla materia di un territorio, e le persone che da quel territorio avvertono di essere possedute. Anche e a maggior ragione in un momento di inedita complessità per la vita culturale del mondo.
In mostra due lavori compiuti e interrogativi, apparentemente dissimili nelle forme ma profondamente connessi nella strategia poetica: Serra Maggiore (Montescaglioso, 2017 — 2018) e Ludovicu (Montescaglioso, 2013 — 2014).
Serra Maggiore è una sorta di controverso reportage che Mariano Silletti conduce nell’omonimo borgo nato a seguito della Riforma agraria, un terremoto identitario che negli anni ’50 frammenta i latifondi del sud per redistribuire le terre alle famiglie contadine. Nel lodevole intento di attuare massicci interventi di natura sociale, la riforma adottò un approccio straordinariamente tecnicista: come tanti borghi coevi, Serra Maggiore è frutto di una politica interventista e visionaria che non lesinava di disporre dei destini degli uomini e dei suoi parametri vitali più profondi, come quello del radicamento in un contesto territoriale. Appezzamenti di terreno insufficienti ad assicurare il sostentamento di un nucleo familiare (in un’Italia che altrove viveva già di cooperative), stravolgimento delle abitudini relazionali e culturali di intere categorie sociali e talvolta assenza dei servizi infrastrutturali minimi portano i borghi a subire un repentino spopolamento nel giro di una manciata di anni, rigettati come un corpo estraneo dal sistema economico e da quello antropico. Il coevo Borgo Schisina (Messina), sorto a partire dal 1950, compare già nel 1960 nel film L’avventura di Antonioni come villaggio fantasma, presagio di inestricabili enigmi, tappa intermedia di una divagazione fatalmente priva di conseguimenti. Sono anche gli anni dello sfollamento dei Sassi di Matera, e del grande laboratorio sociale e urbanistico della modernità che si prefiggerà di rifondare la civiltà contadina a partire dalle visioni, tra gli altri, di Adriano Olivetti incentrate sulla cellula fondamentale del borgo italiano.
Mariano Silletti rinviene a Serra Maggiore un braccio morto nell’organigramma dell’umano, una comunità frammentata e resistente sulla soglia dell’estinzione, inventata dalla modernità e successivamente lì dimenticata. A tratti i suoi personaggi ricordano tanto quegli antieroi della provincia rurale americana narrati dai fratelli Cohen, tanto quelli delle più remote province sovietiche, coscienti del tracollo ma ancora assopiti in attesa che l’avvenire avvenga ancora. Seduto alla sua tavola sembra di rinvenire perfino un uomo che è la citazione del Mangiafagioli di Annibale Carracci (1584). Le donne e gli uomini di Serra Maggiore appaiono ora colonizzatori coraggiosi di una terra di spine e di argilla, ora superstiti di una catastrofe che ha bucato i tetti, crepato le case. Su una terra fumante e inospitale, il suolo scotta: è impossibile mettervi davvero radici ma è altresì impossibile sfuggire. Per un gioco del destino orchestrato da un potere sordo e lontano, quella è diventata la loro terra, quella tanto rivendicata dalle loro nonne e nonni nei moti di Montescaglioso degli anni ’40, e che ora ci racconta quanto profondi e labili, imprescindibili e aleatori siano i presupposti di un discorso identitario.
Si tratta di fotografia documentaria? Una rievocazione alla fine di un ciclo di quelli che furono i grandi reportage della Farm Security Administration ai tempi del New Deal? Quelle persone sono davvero tutto ciò? Luigi Di Gianni, a causa dei suoi documentari in Lucania al seguito delle scorribande antropologiche avviate da Ernesto De Martino, era talvolta posto sotto accusa per l’eccessiva enfasi delle proprie immagini, per l’irreale ritualità che – già di per sé vertiginosamente distante dalla comune percezione delle città del boom economico – era aggravata da una sensibilità per la messa in scena che talvolta virava al metafisico. Ma l’unico rapporto che Di Gianni sentiva di poter intrattenere col reale era attraverso la mediazione consapevole di un codice. Riluttante al colore e spesso anche al suono in presa diretta, pensava al naturalismo come alla più mendace delle costruzioni retoriche. Silletti, allo stesso modo, sessant’anni dopo e negli stessi territori, intrattiene con l’immagine del reale un rapporto mediato da un consapevole e innato senso della scena e della drammaturgia: una serena acquisizione del tema della finzione, con l’idea radicata che l’unica realtà condivisibile sia quella ben più nobile del racconto.
Anche Ludovicu si muove su un sottile crinale che parte da una fotografia di genere tradizionalmente legata all’emersione e alla testimonianza del vero, per poi virare verso una dimensione del racconto che perde ogni velleità assertiva. Qui la street photography o la fotografia legale seguono il Silletti-carabiniere nella vera operazione di ricerca di uno scomparso: si tratta, per l’appunto, di Ludovicu, cinquantasettenne di origini romene affetto da Alzheimer le cui tracce si sono perse – e mai ritrovate – a Montescaglioso (Matera) nel dicembre del 2013. Ancora una storia di sradicamenti, di rapporti mai pacificati con la terra e con l’identità. Ancora un territorio gravido di enigmi, in cui i soggetti si muovono spaesati, provando a cogliere nei “segni” di un ambiente afasico la sostanza di una rivelazione.
In Ludovicu si scopre attraverso la fotografia che il senso di una storia non è nel plot. La grana grossa e polverosa di un bianco e nero viscerale ci conduce lungo il fondo di una Gravina che inghiotte chi osa uscire dal percorso segnato. Si percorre controcorrente, su fino a una Matera straordinariamente noir, cupa e ancestrale. Una città capace ancora di rivelarsi nella sua sconcertante potenza come non la si vedeva più dai tempi di Il demonio di Brunello Rondi e del cono dantesco menzionato da Carlo Levi, nonostante la nauseante abbuffata di oleografie che ha impiantato sul paesaggio il sudario del pittoresco presepiale.
Ne scaturisce un affannato racconto crepuscolare visto dall’interno del corpo istituzionale dei Carabinieri e del corpo empatico dell’uomo: una storia minima, di paradossale marginalità, che nasconde in sé il nucleo profondo e universale di ogni mancanza, di ogni ricerca, fin dentro gli abissi del mito omerico. Silletti comincia a costruire il reportage quando ancora nutre speranze sulla possibilità di un ritrovamento. Ma è forse la mancanza di questo avvenimento catartico che ha poi conferito al progetto la carica di un’energia mai dissipata, di una molla che non scatta, del ronzio di una bomba nell'aria mai seguito dall’attesa deflagrazione. Una fotografia che per definizione è “fotografia del vero”, ma che incastrata in un loop senza esito smentisce i propri presupposti, finisce per divenire l’unico dispositivo possibile per esprimere l’informe angoscia del nostro tempo, che non sta più in alcuna forma retinica e tradizionale, né della fotografia né dell’arte.
Un vecchio professore di Psicologia della percezione era aduso notare come negli anni ’50 esprimessimo il nostro senso di meraviglia di fronte alla bellezza di un manufatto esclamando «Che bello, sembra vero!», mentre in tempi odierni esprimiamo il medesimo sentimento dicendo «Che bello, sembra finto!». Nel lavoro di Silletti la dimensione artistica sembra vivere la stessa conflittualità: sembra chiedere il permesso di addentrarsi nel racconto di realtà sottilmente angoscianti attraverso il filtro della fiction, attraverso la risonanza con la tradizione della fotografia di genere – il documentario, la street photography, la fotografia legale – e la tradizione della cinematografia di genere – il polizesco, l’horror, il thriller. Sembra destarsi di fronte alla secca, mera realtà quando interviene un fenomeno di ordine estetico paragonabile al déjà-vu, al ricordo di un sogno riaffiorato nella veglia o alla reminiscenza platonica. Utilizza lo strumento retorico per maneggiare un materiale incandescente: cerca la giusta distanza, la giusta misura. Ci porta dentro una messa in scena, ma non ci racconta nulla di irreale.
Postille su Demikhov: questa mostra si chiama così. Negli anni della costruzione di Serra Maggiore il chirurgo sovietico Vladimir Petrovič Demikhov decide di maneggiare il mito sul tavolo operatorio. Pioniere del trapianto di organi, rievoca l’impresa che in letteratura fu di Frankenstein e prima ancora di Prometeo, creando una sorta di Cerbero a due teste con l’impianto funzionale della testa di un cane sul corpo vivo di un altro individuo della stessa specie. Strategia ed efficienza; tecnica e progresso; poi dislocazione e ricollocazione. Infine un imprevisto senso di pervasiva estraneità. Di abbandono del familiare. Le indagini su una scomparsa e la Riforma agraria sono due processi tecnici, analitici, efficienti, come efficiente è un trapianto d’organi. Entrambi gli eventi – o sarebbe meglio dire tutti e tre – conducono inaspettatamente a un’eloquente e preziosa perturbazione delle nostre sensibilità.
La mostra, un Cerbero a due teste costretto al ruolo crudele di un’arte che non opera su materia inerte, che non è pacificazione dei sensi, che non è un tavolo per la discussione di compromessi, è un tributo a ciò che inaspettatamente resta di umano lungo la strada di un’inevitabile progredire.
Da Giorgio Vasari ai profili promozionali su Instagram, le biografie degli artisti sono sempre state cosparse di più o meno facile aneddotica. E a tal proposito quella che stiamo per affrontare potrebbe certamente essere una congiuntura feconda. Anche in questo caso una formula prova a sintetizzare una caratteristica peculiare in una stramberia, una bizzarria, un’anomalia da cui far derivare forzosamente ogni aspetto saliente della vita e dell’opera del protagonista. La formula è quella del fotografo-carabiniere, spesso usata per descrivere la natura ibrida dell’identità professionale di Mariano Silletti, perché di indubbia presa sugli immaginari. Quella facoltà di trasgredire – o quantomeno di divagare – tipica di una funzione creativa, associata all’immagine di un membro delle forze dell’ordine, risulta di uno stimolante esotismo e tende a umanizzare, a singolarizzare una figura altrimenti troppo facile da ridurre esclusivamente alla propria funzione, categoria o uniforme. Ma è fuori dall’aneddotica e per vie che pertengono pienamente ai codici contemporanei del fotografico che la professione di carabiniere acquisisce qualcosa di strutturante per il linguaggio che Silletti va delineando: per il proprio sistema di segni, per le proprie drammaturgie, per la propria propensione a intercettare, intuire e costruire racconti.
Per il primo appuntamento del programma di 404 in Porta Coeli Foundation abbiamo deciso di lavorare a una mostra antologica su Mariano Silletti: meno di un decennio nell’ambito della fotografia trascorso sempre con atti misurati, parsimoniosi, ma potenti e di bruciante maturità. Un percorso che ha già ricevuto troppi riconoscimenti internazionali senza che si sia trovato un momento di sintesi in cui riflettere complessivamente sulle mitologie messe in scena da Silletti nei luoghi e con gli abitanti di quelle narrazioni. Ci è sembrato urgente far accadere l’inevitabile, come da qui in poi 404 si proporrà di fare regolarmente: l’incontro tra la fatica di un lavoro di controversa immaginificazione sulla materia di un territorio, e le persone che da quel territorio avvertono di essere possedute. Anche e a maggior ragione in un momento di inedita complessità per la vita culturale del mondo.
In mostra due lavori compiuti e interrogativi, apparentemente dissimili nelle forme ma profondamente connessi nella strategia poetica: Serra Maggiore (Montescaglioso, 2017 — 2018) e Ludovicu (Montescaglioso, 2013 — 2014).
Serra Maggiore è una sorta di controverso reportage che Mariano Silletti conduce nell’omonimo borgo nato a seguito della Riforma agraria, un terremoto identitario che negli anni ’50 frammenta i latifondi del sud per redistribuire le terre alle famiglie contadine. Nel lodevole intento di attuare massicci interventi di natura sociale, la riforma adottò un approccio straordinariamente tecnicista: come tanti borghi coevi, Serra Maggiore è frutto di una politica interventista e visionaria che non lesinava di disporre dei destini degli uomini e dei suoi parametri vitali più profondi, come quello del radicamento in un contesto territoriale. Appezzamenti di terreno insufficienti ad assicurare il sostentamento di un nucleo familiare (in un’Italia che altrove viveva già di cooperative), stravolgimento delle abitudini relazionali e culturali di intere categorie sociali e talvolta assenza dei servizi infrastrutturali minimi portano i borghi a subire un repentino spopolamento nel giro di una manciata di anni, rigettati come un corpo estraneo dal sistema economico e da quello antropico. Il coevo Borgo Schisina (Messina), sorto a partire dal 1950, compare già nel 1960 nel film L’avventura di Antonioni come villaggio fantasma, presagio di inestricabili enigmi, tappa intermedia di una divagazione fatalmente priva di conseguimenti. Sono anche gli anni dello sfollamento dei Sassi di Matera, e del grande laboratorio sociale e urbanistico della modernità che si prefiggerà di rifondare la civiltà contadina a partire dalle visioni, tra gli altri, di Adriano Olivetti incentrate sulla cellula fondamentale del borgo italiano.
Mariano Silletti rinviene a Serra Maggiore un braccio morto nell’organigramma dell’umano, una comunità frammentata e resistente sulla soglia dell’estinzione, inventata dalla modernità e successivamente lì dimenticata. A tratti i suoi personaggi ricordano tanto quegli antieroi della provincia rurale americana narrati dai fratelli Cohen, tanto quelli delle più remote province sovietiche, coscienti del tracollo ma ancora assopiti in attesa che l’avvenire avvenga ancora. Seduto alla sua tavola sembra di rinvenire perfino un uomo che è la citazione del Mangiafagioli di Annibale Carracci (1584). Le donne e gli uomini di Serra Maggiore appaiono ora colonizzatori coraggiosi di una terra di spine e di argilla, ora superstiti di una catastrofe che ha bucato i tetti, crepato le case. Su una terra fumante e inospitale, il suolo scotta: è impossibile mettervi davvero radici ma è altresì impossibile sfuggire. Per un gioco del destino orchestrato da un potere sordo e lontano, quella è diventata la loro terra, quella tanto rivendicata dalle loro nonne e nonni nei moti di Montescaglioso degli anni ’40, e che ora ci racconta quanto profondi e labili, imprescindibili e aleatori siano i presupposti di un discorso identitario.
Si tratta di fotografia documentaria? Una rievocazione alla fine di un ciclo di quelli che furono i grandi reportage della Farm Security Administration ai tempi del New Deal? Quelle persone sono davvero tutto ciò? Luigi Di Gianni, a causa dei suoi documentari in Lucania al seguito delle scorribande antropologiche avviate da Ernesto De Martino, era talvolta posto sotto accusa per l’eccessiva enfasi delle proprie immagini, per l’irreale ritualità che – già di per sé vertiginosamente distante dalla comune percezione delle città del boom economico – era aggravata da una sensibilità per la messa in scena che talvolta virava al metafisico. Ma l’unico rapporto che Di Gianni sentiva di poter intrattenere col reale era attraverso la mediazione consapevole di un codice. Riluttante al colore e spesso anche al suono in presa diretta, pensava al naturalismo come alla più mendace delle costruzioni retoriche. Silletti, allo stesso modo, sessant’anni dopo e negli stessi territori, intrattiene con l’immagine del reale un rapporto mediato da un consapevole e innato senso della scena e della drammaturgia: una serena acquisizione del tema della finzione, con l’idea radicata che l’unica realtà condivisibile sia quella ben più nobile del racconto.
Anche Ludovicu si muove su un sottile crinale che parte da una fotografia di genere tradizionalmente legata all’emersione e alla testimonianza del vero, per poi virare verso una dimensione del racconto che perde ogni velleità assertiva. Qui la street photography o la fotografia legale seguono il Silletti-carabiniere nella vera operazione di ricerca di uno scomparso: si tratta, per l’appunto, di Ludovicu, cinquantasettenne di origini romene affetto da Alzheimer le cui tracce si sono perse – e mai ritrovate – a Montescaglioso (Matera) nel dicembre del 2013. Ancora una storia di sradicamenti, di rapporti mai pacificati con la terra e con l’identità. Ancora un territorio gravido di enigmi, in cui i soggetti si muovono spaesati, provando a cogliere nei “segni” di un ambiente afasico la sostanza di una rivelazione.
In Ludovicu si scopre attraverso la fotografia che il senso di una storia non è nel plot. La grana grossa e polverosa di un bianco e nero viscerale ci conduce lungo il fondo di una Gravina che inghiotte chi osa uscire dal percorso segnato. Si percorre controcorrente, su fino a una Matera straordinariamente noir, cupa e ancestrale. Una città capace ancora di rivelarsi nella sua sconcertante potenza come non la si vedeva più dai tempi di Il demonio di Brunello Rondi e del cono dantesco menzionato da Carlo Levi, nonostante la nauseante abbuffata di oleografie che ha impiantato sul paesaggio il sudario del pittoresco presepiale.
Ne scaturisce un affannato racconto crepuscolare visto dall’interno del corpo istituzionale dei Carabinieri e del corpo empatico dell’uomo: una storia minima, di paradossale marginalità, che nasconde in sé il nucleo profondo e universale di ogni mancanza, di ogni ricerca, fin dentro gli abissi del mito omerico. Silletti comincia a costruire il reportage quando ancora nutre speranze sulla possibilità di un ritrovamento. Ma è forse la mancanza di questo avvenimento catartico che ha poi conferito al progetto la carica di un’energia mai dissipata, di una molla che non scatta, del ronzio di una bomba nell'aria mai seguito dall’attesa deflagrazione. Una fotografia che per definizione è “fotografia del vero”, ma che incastrata in un loop senza esito smentisce i propri presupposti, finisce per divenire l’unico dispositivo possibile per esprimere l’informe angoscia del nostro tempo, che non sta più in alcuna forma retinica e tradizionale, né della fotografia né dell’arte.
Un vecchio professore di Psicologia della percezione era aduso notare come negli anni ’50 esprimessimo il nostro senso di meraviglia di fronte alla bellezza di un manufatto esclamando «Che bello, sembra vero!», mentre in tempi odierni esprimiamo il medesimo sentimento dicendo «Che bello, sembra finto!». Nel lavoro di Silletti la dimensione artistica sembra vivere la stessa conflittualità: sembra chiedere il permesso di addentrarsi nel racconto di realtà sottilmente angoscianti attraverso il filtro della fiction, attraverso la risonanza con la tradizione della fotografia di genere – il documentario, la street photography, la fotografia legale – e la tradizione della cinematografia di genere – il polizesco, l’horror, il thriller. Sembra destarsi di fronte alla secca, mera realtà quando interviene un fenomeno di ordine estetico paragonabile al déjà-vu, al ricordo di un sogno riaffiorato nella veglia o alla reminiscenza platonica. Utilizza lo strumento retorico per maneggiare un materiale incandescente: cerca la giusta distanza, la giusta misura. Ci porta dentro una messa in scena, ma non ci racconta nulla di irreale.
Postille su Demikhov: questa mostra si chiama così. Negli anni della costruzione di Serra Maggiore il chirurgo sovietico Vladimir Petrovič Demikhov decide di maneggiare il mito sul tavolo operatorio. Pioniere del trapianto di organi, rievoca l’impresa che in letteratura fu di Frankenstein e prima ancora di Prometeo, creando una sorta di Cerbero a due teste con l’impianto funzionale della testa di un cane sul corpo vivo di un altro individuo della stessa specie. Strategia ed efficienza; tecnica e progresso; poi dislocazione e ricollocazione. Infine un imprevisto senso di pervasiva estraneità. Di abbandono del familiare. Le indagini su una scomparsa e la Riforma agraria sono due processi tecnici, analitici, efficienti, come efficiente è un trapianto d’organi. Entrambi gli eventi – o sarebbe meglio dire tutti e tre – conducono inaspettatamente a un’eloquente e preziosa perturbazione delle nostre sensibilità.
La mostra, un Cerbero a due teste costretto al ruolo crudele di un’arte che non opera su materia inerte, che non è pacificazione dei sensi, che non è un tavolo per la discussione di compromessi, è un tributo a ciò che inaspettatamente resta di umano lungo la strada di un’inevitabile progredire.
04
luglio 2020
404.01: Mariano Silletti – Postille su Demikhov
Dal 04 luglio al 04 ottobre 2020
fotografia
Location
PORTA COELI FOUNDATION
Venosa, Vico San Domenico, 1, (PZ)
Venosa, Vico San Domenico, 1, (PZ)
Orario di apertura
10-19
Vernissage
4 Luglio 2020, h 18.00, su invito
Sito web
Ufficio stampa
Porta Coeli Foundation
Autore
Curatore
Autore testo critico