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Per Kenny Schachter, il presente e il futuro del mercato dell’arte non è roseo
Mercato
Lo scrittore, artista e raffinato collezionista Kenny Schachter sembra non cavalcare la diffusa ondata d’ottimismo che, nelle ultime settimane, sembra aver rinfrescato il mercato dell’arte, atteso al banco di prova del post lockdown. Are TV Art auctions the New Televangelism? è il titolo del suo lungo commento pubblicato su Artnet con le news più stridenti, dall’arresto di Inigo Philbrick ai licenziamenti di David Zwirner, fino a uno sguardo su quegli stessi risultati d’asta che tutti hanno osannato.
A chi importa del gender e della black art?
Il primo affondo, nell’ambito delle aste, riguarda una presunta ipocrisia, goffamente celata, verso i record delle pittrici. Ma procediamo con ordine, a che cosa allude Schachter? L’asta di Old Masters battuta da Sotheby’s lo scorso 7 maggio ha registrato buoni numeri per quelle donne tristemente ai margini del mercato: il dipinto manierista di Orsola Maddalena Caccia ha superato di quattordici volte la sua stima di partenza, e Lady Butler, con il suo Yeomanry Scouts on the Veldt, ha trionfato sulle aspettative più rosee. Anche l’Evening di Sotheby’s dello scorso 29 giugno, con la straordinaria collezione di Ginny Williams, ha visto sfilare grandi nomi femminili dell’arte contemporanea (tra gli altri, Helen Frankenthaler, Lee Krasner, Yayoi Kusama e Agnes Martin). Risultato? Una white glove sale, ovvero il 100% dei lotti venduti, per un totale di 65,5 milioni di dollari e un nuovo record per Helen Frankenthaler.
Eppure il campanello di Schachter non ha tardato a farsi sentire: «Non lasciatevi ingannare. Gli studi hanno dimostrato in modo inequivocabile che l’arte delle donne, come quella degli artisti di colore, costa meno». Esattamente a 427 anni dalla nascita di Artemisia Gentileschi, che lottò tutta la vita per emancipare il suo talento, l’arte femminile “conviene”, con un valore medio del 16-30% in meno di quella maschile e una situazione decisamente più ostile nelle gallerie del mercato secondario. In questi termini, forse, superare i record non è poi così difficile.
Non solo i capolavori firmati dalle donne finiscono nel mirino: «Le Black Lives hanno apparentemente iniziato a contare nel mondo, ma non nel business delle aste, e sono ancora ben lontane dal mercato dell’arte». Ingiustamente, s’intende. Anche in questo caso, la mente vola a nomi da record, come El Anatsui, Tschabalala Self e Amoako Boafo, che lo scorso febbraio hanno registrato buoni risultati nell’asta serale di Phillips. Ma l’art provocateur non la manda a dire: «Le case d’asta rimangono più bianche delle due dozzine di partecipanti pagati ad ogni raduno di Trump». E ancora: «Anche la prima casa d’aste dedicata esclusivamente alla Black Art è in realtà di proprietà di bianchi (di Thom Pegg)».
Il lato kitsch delle vendite online
Ma la parte più graffiante del testo di Schachter riguarda senza dubbio le vendite online, paragonate niente meno che al televangelismo, puro «intrattenimento televisivo, dove nulla si muove se non il denaro», con quel «fare soldi in modo meschino, kitsch, inquietante, messianico».
Il riferimento è esplicito, riguarda in primis l’asta di arte moderna e contemporanea battuta da Sotheby’s lo scorso 29 giugno (qui trovate i risultati). Un successone, a detta di tutti, con la sopracitata white glove sale per la collezione Williams e vari record diffusi, come l’Untitled (Head) su carta di Basquiat. Anche stavolta, però, Schachter placa i grandi entusiasmi: «Posso rivelare che il lavoro su carta di Basquiat, che ha ottenuto 15 milioni di dollaro, è stato venduto dal giovane dealer francese Cyril Blot-Lefevre con una garanzia di 9 milioni di dollari».
E non è tutto: ulteriore oggetto di critica è quell’abitudine ormai diffusa di acquistare per vendere, senza mai vivere un’opera, senza mai possederla davvero, grazie alla possibilità di gestire ogni mossa con pochi click. Anche in questo caso, Schachter non si lascia sfuggire l’occasione di citare un episodio recente: un Amoako Boafo realizzato nel 2019 e rivenduto non meno di quattro volte in un anno. Quattro volte in un anno. Una disfatta. È l’emblema di un’arte che non ha più il tempo di vivere, ma solo la fretta di essere ingurgitata dal mercato, di crescere, senza mai acquisire una storia, un valore effettivo (e affettivo, come nelle grandi collezioni di un tempo). È una bulimia del possesso, che porta ad accumulare senza farsi domande, come per le reliquie della Santa Croce, sparse e venerate per il mondo e che – come scrisse Giovanni Calvino – se ricomposte, potrebbero riempire una nave intera.
«L’arte si è separata dal mercato dell’arte», conclude Schachter, «nel senso più brutale e riduttivo: oggi i mercati non hanno motivazioni diverse dall’opportunismo e dall’avidità. È la natura umana».