10 luglio 2020

Stranger Fruit: le fotografie di Jon Henry, tra pietas e police brutality

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Jon Henry dà immagine al dolore delle madri afroamericane vittime della violenza della polizia, in un progetto fotografico itinerante ispirato all’iconografia della pietas

Jon Henry, Untitled #44, Crenshaw Blvd, CA

Qualche settimana fa, scorrendo il mio feed Instagram monopolizzato dalle ultime notizie riguardanti le proteste in seguito all’omicidio di George Floyd, mi sono trovata davanti a un’immagine la cui forza espressiva era talmente magnetica da impedirmi di ignorarla. C’erano due occhi, fissi sull’obbiettivo, e il busto di una donna eretto in atteggiamento di affronto verso l’osservatore. Affronto ma anche implicita richiesta di aiuto da parte di chi, come me, si sarebbe prima o poi trovato quello sguardo davanti. Sulle braccia, la donna sorreggeva a peso morto il corpo di un bambino apparentemente senza vita, come a imitare nel gesto l’iconografia cristiana della pietas. Ma in questo caso una pietas afroamericana, Untitled 48, geolocalizzata ad Inglewood, California. Così ho scoperto Stranger Fruit, il progetto fotografico dell’artista newyorkese Jon Henry, iniziato nel 2014 e tutt’ora in corso, anzi, adesso più che mai, con gli eventi di queste ultime settimane che contribuiscono ad accrescerne la rilevanza e a sottolinearne l’attualità, nonostante il tema sia “attuale” ormai da troppi anni.

L’omicidio di Floyd, riconosciuto come fattore scatenante del gigantesco movimento di proteste esploso negli Stati Uniti qualche settimana fa e identificato internazionalmente con il nome di Black Lives Matter, è infatti solo l’ultimo di una lunga lista di violenze causate dal fenomeno, tipicamente statunitense, della police brutality che, per decenni, ha avuto come target di riferimento giovani ragazzi afroamericani.

La genesi tragica di Stranger Fruit

Durante una conversazione con l’artista, presentata dalla School of Visual Arts di New York e tenutasi su Zoom il 9 giugno, Henry ha ripercorso la nascita e l’evoluzione del progetto, soffermandosi inoltre sul ruolo rappresentato dai vari contenuti visivi, sonori e storici dai quali è stato ispirato. Nel 2006, in seguito all’omicidio dell’afroamericano Sean Bell per mano della polizia di NYC, l’artista ha cominciato a maturare l’idea di realizzare un progetto fotografico itinerante che concentrasse l’attenzione sul dolore di quelle madri i cui figli sono stati negli anni ripetutamente vittime di omicidi perpetrati dalle forze dell’ordine americane come risultato di un razzismo radicato e metodico. Accanto al dolore c’è anche la volontà di riflettere sulla preoccupazione quotidiana di tutte le altre madri non personalmente colpite ma consapevoli della portata di un dolore immenso, universale.

È in questa situazione di potenziale pericolo costante che l’artista identifica la propria famiglia e da cui ha avuto la spinta per dare vita all’intero progetto. «Ho deciso di fotografare madri con i loro figli nel loro ambiente di riferimento, ricreando in qualche modo un’immagine che riflettesse sul dolore che devono aver patito. Le madri nelle fotografie non hanno perso i loro figli, ma si rendono conto che questo potrebbe succedere alle loro famiglie. Quando i processi sono finiti, i protestanti sono andati a casa e le telecamere sono sparite, è la madre a rimanere. Lasciata nel lutto, sola, a sopravvivere», dichiara l’artista in una sorta di mission statement del progetto.

Il riferimento sistematico alla pietas come soggetto compositivo delle fotografie – e quindi il significato cristiano che l’utilizzo ripetuto del simbolo comporta – viene contestualizzato dall’artista come risultato di anni di lavoro in una chiesa locale del Queens, dove è nato e cresciuto in una famiglia afroamericana protestante. La prima foto che ha dato ufficialmente inizio a Stranger Fruit nel 2014 è stata infatti scattata nella chiesa episcopale di St. George a Flushing per mettere in luce da principio il forte collegamento con l’iconografia cristiana.

Il progetto si è poi evoluto con il tempo in una serie di immagini, sempre concentrate sullo stesso tema, ma scattate in una quindicina di città americane con l’obbiettivo di rappresentare quante più possibili realtà locali e contesti sociali differenti. «Penso che sia importante coprire l’intero paese perché questi episodi sono successi, e in futuro c’è la minaccia che possano risuccedere, ovunque e in qualsiasi momento. Le madri non possono essere sempre pronte a proteggere i figli», spiega Henry durante l’intervista organizzata dalla SVA a lui dedicata, precisando inoltre il fatto che non ci sia una diretta correlazione fra le città scelte e i luoghi in cui sono realmente avvenuti questi episodi di violenza.

Blackness, police brutality, rapporto madre-figlio e le relative vulnerabilità intrinseche alla natura del legame rappresentano i principali temi di Stranger Fruit. Il titolo del progetto è un riferimento all’omonima canzone Strange Fruit, resa famosa da Billie Holiday nel 1939 e reinterpretata poi nel 1965 dalla cantante e attivista Nina Simone, citata in particolare come fonte di ispirazione dietro l’intero progetto.

Henry dichiara senza mezzi termini di vedere in questi omicidi una forma contemporanea di linciaggio: «Invece di vedere corpi neri impiccati appesi ai pioppi, sono i frutti delle nostre famiglie, delle nostre comunità, a venire uccisi per le strade». Diventa inevitabile chiedersi quanto tempo ancora ci vorrà per vedere dei segnali concreti di progresso, nonostante ci troviamo ormai a metà 2020 e nel mezzo di una pandemia globale che in America ha colpito principalmente la comunità afroamericana, andando a esacerbare situazioni già esasperate di ingiustizia razziale.

Museo o billboard?

Un altro tema trattato da Henry durante la conversazione ha riguardato il luogo espositivo adatto per esibire un progetto come Stranger Fruit. È importante scegliere un luogo espositivo quanto più inclusivo possibile, la cui programmazione artistica sia anche rivolta alla parte di cittadini rappresentata, in questo caso la minoranza afroamericana. Come sottolineato da Henry, non avrebbe alcun senso pensare a un’opera d’arte fruibile da qualsiasi fascia di popolazione e poi esibirla in uno spazio dove probabilmente la maggioranza del target di visitatori a cui si era pensato non si sentirebbe a proprio agio.

Fra le numerose mostre organizzate in diverse gallerie a New York tra cui Aperture Foundation, Smack Mellon e BRIC, di grande impatto è stata l’esposizione di uno degli scatti di Stranger Fruit su un billboard vicino a Times Square nel febbraio 2019 e rimasto poi in mostra per i cinque mesi successivi. La sola presenza monumentale della fotografia priva di una qualsiasi contestualizzazione esplicita, unita all’eccezionalità del soggetto rappresentato dall’immagine stessa – soprattutto tenendo in considerazione le immagini pubblicitarie esibite usualmente dai billboards a Times Square – ha senza dubbio contribuito ad accrescere la rilevanza sociale del progetto, sottolinea l’artista.

 

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Spending time with the billboard. #blacklivesmatter #artist #supportblackart #kodak #poc #family #art #publicart #billboard

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Quando, in conclusione all’intervista, il rappresentante della School of Visual Arts ha chiesto a Henry che intenzioni abbia riguardo alla continuazione, o al termine, di Stranger Fruit, l’artista ha mostrato una mappa degli USA dove sono segnate con una croce le città già rappresentate e le poche altre in programma di includere a conclusione del progetto, per poi potersi concentrare su altri temi che sente l’urgenza di affrontare. Quali siano questi temi, queste idee alla base di nuovi progetti, rimane per adesso solo una domanda a cui Henry non ha voluto dare risposta.

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