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‘Confino’: l’artist-run space fondato da Ruben Montini
Progetti e iniziative
di redazione
Lo scorso 20 giugno, con la mostra “Prima della prima”, ha inaugurato il nuovo artist-run space CONFINO, in provincia di Verona, fondato da Ruben Montini (1986, Oristano) per essere un luogo di espressione per artisti omosessuali che vivono o lavorano in Italia.
Nel percorso espositivo opere di Jacopo Benassi, Nicolò Bruno, Luca Frati, Luca Di Giamberardino e Valerio Eliogabalo Torrisi, oltre alla performance di Ruben Montini “Se non uccide, fortifica”, con il supporto di Prometeo Gallery Ida Pisani.
«La programmazione di CONFINO si concentrerà esclusivamente su tematiche che dall’identità di genere, arrivano a raccontare il mondo LGBTQI+ nella sua complessità contemporanea all’interno della società italiana. Si propone, dunque, di colmare un gap istituzionale ma anche esistente nel panorama più indipendente del Paese», si legge nel comunciato stampa.
Abbiamo approfondito con Ruben Montini le ragioni che hanno portato alla nascita di CONFINO e i progetti per il futuro.
Intervista a Ruben Montini
Come è nato il progetto CONFINO e quali sono i suoi obiettivi?
«Ho sempre desiderato avere un mio spazio privato in cui mostrare il lavoro degli artisti che più mi interessano. Già nel 2011 a Venezia avevo creato Space4828, che prendeva il nome dal numero civico della mia casa di allora, dove avevo esposto il lavoro di artisti come – tra gli altri – Karol Radziszewski, Giusy Pirrotta, Vanessa Mitter, Giovanni Morbin.
Nel 2018 avviene il grande cambiamento nella mia vita quando decido di lasciare Berlino per riscattare la casa dei nonni paterni, a Castelnuovo del Garda, un paese che tutti conoscono per Gardaland e che si trova esattamente tra il Lago e le porte di Verona. Spinto dal voler tornare in Italia, dove il mio lavoro è comunque radicato, ho optato per un contesto periferico che mi permette di raggiungere velocemente Milano, Venezia, Bologna e Verona.
CONFINO si profila, dunque, come un proseguo di Space4828 ma si definisce meglio, configurandosi con la volontà di esporre soltanto artisti gay italiani o che vivono stabilmente in Italia. Sorge in quella che prima era una piccola officina meccanica di proprietà del mio bisnonno e poi del nonno. Uno spazio di famiglia che ho voluto riattivare in una nuova veste, come un’officina per nuovi immaginari.
Per me era – ed è – importante fare qualcosa per colmare un vuoto che esiste sia nelle programmazioni istituzionali sia in quelle più indipendenti, in un momento storico in cui penso che sia urgente dare voce alle minoranze».
Per l’inaugurazione hai realizzato la performance “Se non uccide, fortifica”, che nasce da situazioni del tuo passato molto gravi e dolorose. Perché hai ritenuto fosse venuto il momento di tematizzare questo vissuto attraverso questa performance?
«Giugno è il mese del Pride e non è giusto pensare di poterlo sintetizzare solamente nella parata tradizionale. Deve essere un mese di approfondimento e di riflessione: per questo l’apertura di CONFINO è stata pensata per giugno e per questo anche M.I.O avverrà ogni anno in quel periodo. Inoltre il mese di giugno appena conclusosi ha visto innumerevoli momenti di discussione sulle tematiche LGBTQ+ perché, quest’anno, è combaciato con i dibattiti del Governo sul ddl contro l’omotransfobia e la misoginia.
Inizialmente avrei voluto evitare di esporre delle mie opere nel mio spazio; in un secondo momento, invece, ho pensato che realizzare una mia performance così radicale come “Se non uccide, fortifica” all’inaugurazione, mi avrebbe permesso di fare una sorta di dichiarazione di intenti sullo scopo dell’intero progetto.
Quindi, in tema con le discussioni del ddl Zan, ho realizzato un’azione che parla della mia esperienza di ragazzino adolescente costantemente bullizzato per il suo essere effemminato e infine per essere omosessuale. Senza voler fare della demagogia sul tema, penso però che sia urgente parlarne, testimoniare, avere il coraggio di raccontare le cose per quello che sono state: perché non accadano più. La legge è urgente e la giurisprudenza può fare il suo corso; in questo caso, però, dobbiamo essere consapevoli del fatto che la legge potrà punire, limitare, ma non cancellerà del tutto l’omofobia che, ahimè, è nel dna di troppe persone. Tutta la nostra educazione è etero-normativa, etero-centrica. Un vero cambiamento a livello sociale non sarà determinato dall’approvazione della legge. Avrà bisogno di molto, molto più tempo».
Il giorno successivo alla performance hai scritto un post su Facebook: che cosa è successo e perché…
«Io non sono una vittima e non voglio farlo, voglio invece dare il mio esempio, condividere la mia esperienza.
Come mia abitudine, il giorno dopo la performance ho pubblicato alcune immagini del lavoro, con un testo molto istintivo in cui raccontavo l’esperienza vissuta da adolescente ma anche le motivazioni che mi hanno spinto a realizzare il progetto. Il post è stato condiviso da tantissime persone sui social media ma, purtroppo, è stato censurato da Facebook. Lo stesso Facebook che, dopo aver rimosso qualsiasi traccia del post, mi ha contattato per fornirmi link utili per persone affette da gravi forme di depressione che portano all’autolesionismo e al suicidio.
Non capisco il senso della censura da parte di Facebook. Immagino che l’inchiostro rosso del tatuaggio sia stato scambiato per sangue; ma bastava leggere il post e il titolo del lavoro per capire che si parlasse di rialzarsi dopo una caduta, di far valere i propri diritti per poi trionfare. E non il contrario».
CONFINO parte dalla tua esperienza diretta, ma porta l’attenzione sulla situazione LGBTQI+ in generale e va oltre, arrivando alle discriminazioni di ogni tipo. A che punto siamo in Italia, secondo te, nella lotta alle discriminazioni?
«Penso che in Italia sia improvvisamente OK discriminare chi è diverso dal maschio bianco eterosessuale, benestante. Intere campagne politiche vengono costruite cavalcando l’onda della discriminazione, dell’ignoranza, della ridicolizzazione del diverso e di chi la pensa in maniera diversa da noi.
Gli stessi programmi televisivi che si prefiggono di raccontare le diversità, in realtà hanno sempre un tono ironico se non proprio di derisione nei confronti dei poveretti che, convinti del loro ruolo di ospiti televisivi, si trasformano troppo spesso in vittime ridicolizzate.
Quello che continuo a leggere, sentire, vedere, mi porta a chiedermi che cosa abbiamo imparato dal Novecento, di cui la nostra generazione è figlia. Se non ci battiamo per i nostri diritti vuol dire che non abbiamo imparato niente. Se permettiamo che qualcuno venga sopraffatto, abusato, che un gruppo di persone goda di meno diritti rispetto a un gruppo più ampio: vuol dire che del Novecento abbiamo imparato poco. Forse, purtroppo».
Quali saranno i prossimi progetti di CONFINO? Una curiosità: l’anno prossimo svilupperai il progetto “M.I.O. (Maschio Italiano Omosessuale)”, come sarà strutturato e perché il titolo ha un riferimento molto diretto e unico ai soggetti maschili?
«In un momento in cui trionfano i nuovi Nazionalismi, Sovranismi, protettori della famiglia e della Patria con le motivazioni più grette e meschine, il discorso sui diritti LGBT+, come quelli di altre minoranze discriminate, si è intensificato e fatto più radicale. Tutto d’un fiato teso alla conquista dei diritti. Io ho scelto di focalizzare la programmazione di CONFINO sul lavoro di artisti gay maschili perché è quello che io conosco, che frequento maggiormente, e di cui ho esperienza diretta.
In questo clima terribile che si è creato nel nostro Paese e in tante altre latitudini e longitudini, è importante alzare la testa. Denunciare. Dire basta. M.I.O nasce così, come un capitolo di una storia vera che non è soltanto autobiografica ma vuole essere anche collettiva. Nasce non casualmente dentro a CONFINO, una vecchia casa di famiglia trasformata prima in abitazione e ora in uno “spazio-incubatore” lontano da dinamiche di sistema e dinamiche commerciali, che dà spazio ad altri artisti di cui condivido poetica e visione creativa.
La programmazione di CONFINO si concentrerà esclusivamente su tematiche che dall’identità di genere, arrivano a raccontare il mondo LGBTQI+ nella sua complessità contemporanea all’interno della società italiana. Insieme alle mostre proporrà proiezioni video, talks e un programma di performance dal vivo con una propensione a creare comunità, o quasi famiglia, proprio come le Houses of voguing, della tradizione Queer americana degli anni Ottanta».
La performance “Se non uccide, fortifica”
Con queste parole Ruben Montini ha spiegato la performance “Se non uccide, fortifica”:
«Durante tutta l’adolescenza sono stato bullizzato perchè effeminato. I miei due nomi Nicola e Ruben diventavano insulti nelle grida del branco che mi attaccava a scuola, all’uscita da scuola o ovunque mi incontrasse.. loro in gruppo e io da solo … Così Nicola diventava Nicoletta e Ruben diventava Rubenitta. Questo mi faceva più male, forse perchè non è la versione femminile di Ruben.. ma è semplicemente una storpiatura femminilizzante del mio nome, cacofonica e dolorosa da sentire. Ancora oggi mi fa male, e mi fa malissimo ricordare quel nome e quel momento lunghissimo della mia vita. Se vedo un gruppetto di adolescenti e io sono da solo, cambio strada.. perchè il ricordo torna a quei momenti .. in cui nessuno si accorgeva della mia sofferenza, ma io mi sentivo morire dentro ogni giorno.. e non vedevo l’ora di tornare di corsa a casa e sentirmi protetto.
Oggi, invece, sono un uomo e sono più coraggioso. Forse anche per aver vissuto quel periodo terribile.. sono forte e sono orgoglioso di quello che sono.
Ho deciso di tatuarmi per sempre questi nomi sulla pelle, sulle braccia, perchè possa guardarli sempre. Li ho tatuati col rosso, perchè è il colore del sangue e delle ferite.
Queste sono ferite che fanno fatica a rimarginare.
L’ho fatto per ricordare a me stesso che sono stato forte a superare quel periodo, sono diventato forte e spero di dare una speranza a tutti quelli che stanno attraversando l’incubo che ho attraversato io. Spero che il Governo Italiano faccia di tutto per criminalizzare l’omotransfobia approvando il disegno di Legge Zan.
Mentre scrivo queste parole, mi sembra che stia facendo un secondo coming out. Ammettere di essere stato bullizzato per anni per la propria effeminatezza e sessualità, mi crea un imbarazzo notevole. Ma è ora di dire le cose come stanno e alzare la testa. Non mi voglio vergognare ad ammettere di essere stato preso in giro per anni interi per essere omosessuale. Voglio che sia il branco che mi attaccava a vergognarsi. E voglio, pretendo, che il nostro Governo si sbrighi ad approvare una legge che punisca quelle persone di cui il mondo è ancora pieno».