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Giulia Mozzini – Life of a Repentant
Giulia Mozzini congela in un reportage quello che si legge nei libri, che si guarda nei film, che si ascolta al telegiornale. Oppure quello che nessuno vorrebbe guardare per paura di vederne la crudezza. Questa è la storia di Michele, la storia di un pentito e del suo ritorno in società.
Comunicato stampa
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Secondo un rapporto prodotto dalla polizia di stato nel 2016 (l’ultima data per la quale sono disponibili statistiche ufficiali), il totale della “popolazione protetta” è di 6192 persone, 1277 sono collaboratori e testimoni della giustizia e quasi 5000 sono i loro familiari che li seguono: mogli, figli, fratelli, cognati, nipoti, conviventi. L’organizzazione criminale con il maggior numero di collaboratori di giustizia è la Camorra, con oltre 600 pentiti. Nonostante le agevolazioni materiali offerte dalla collaborazione, non esiste un vero programma di integrazione e molti di loro, affrontando le difficoltà che il nuovo ingresso nella società civile comporta, fanno un passo indietro e riprendono le loro abitudini, tornando presto in prigione. Tra coloro che resistono e cercano di adattarsi alle nuove regole, molti non riescono a raggiungere la stabilità economica perché hanno posizioni lavorative che spesso non consentono la crescita professionale e bruciano i loro guadagni per mantenere uno stile di vita ancora troppo elevato rispetto alle loro nuove condizioni . Ci sono pochissimi che fanno carriera e riescono a stabilizzarsi nella società. Michele è uno di questi, è questa è la sua vita: la vita di un pentito.
Ecco la sua testimonianza:
"Sono uscito di galera con la consapevolezza di essere indietro anni luce rispetto agli altri e quindi non avrei badato a nessun tipo di sacrificio pur di accodarmi alla società civile. Non conoscevo nemmeno Facebook, per dare un metro di misura di quanto fossi indietro. I primi mesi ero in detenzione domiciliare , potevo uscire solo dalle 10 alle 12. Scrissi al magistrato di sorveglianza chiedendogli un’autorizzazione molto dettagliata per poter trovare un lavoro ed effettuare eventuali prove prima di presentargli il contratto. Così mi rimboccai le maniche e la mattina iniziai a presentare cv a raffica ( ovviamente con referenze false) a qualunque posto facesse da mangiare. Non mi interessavano gli orari, le mansioni e la paga, volevo solo lavorare. Dopo mille - le faremo sapere -iniziai la prima prova, il posto era carino e in pieno centro . Il titolare mi mise in uno scantinato insieme a tre ragazzi del Bangladesh a lavare piatti, stoviglie, tritare cipolle e pulire patate. Mi stava bene, dopo tutto era il mio primo lavoro. (...) Nel ristorante dove ero dimostrai subito il mio valore, non guardavo l’orologio, non mi lamentavo mai e lavoravo sodo: facevo 13 ore al giorno per 6 giorni la settimana per 800 euro al mese. Praticamente i soldi che facevo con 2 scooter rubati a 15 anni. (...) In soli 3 anni ero arrivato dove persone qualificate con tanto di studi ed esperienza erano arrivati in 10: questa era la cosa che mi piaceva di più e devo tutto al percorso che ho fatto: se non avessi maturato quella scaltrezza non ci sarei mai riuscito. Lo chef iniziò a infastidirmi così tanto che iniziai a fomentarlo: strategia tipica dei clan dei Casalesi, dopo aver ascoltato milioni di storie di questi criminali che ti raccontavano come instauravano rapporti per uccidere un avversario. Ovviamente in maniera diversa, però io sentivo di meritare il suo posto e lo volevo, per me rappresentava un modo per saziare sia il mio egocentrismo e soprattutto per dimostrare che gli anni che ero stato in galera non erano stati perduti. Iniziai a metterlo contro la direzione finché lui non si sentì così preso da lasciare il proprio posto di lavoro:nel momento in cui lui diede le sue dimissioni si aspettava che io facessi lo stesso, cosa che io non feci perché io volevo il suo posto e non avevo fatto tutto questo per essere il secondo. Diceva sempre Luigi Diana, un killer, che il secondo non è altro che il migliore dei perdenti e io avevo perso troppo per vivere ancora da perdente. Diventai chef, ci misi corpo, cuore, anima, mi sacrificai tanto e tutt’ora oggi lo faccio. Mi accollai responsabilità di cui l’altro chef non si era mai preso carico, impostai una linea diversa dalla sua: non ero il capo della cucina ma il leader, ero quello che quando c’era da fare un lavoro di merda era il primo, che quando c’era da stare in cella a meno 20 gradi era sempre presente, quello che si guadagnava il rispetto dei musulmani in cucina elogiando il loro dio, rispettando il loro credo e salutandoli come la religione islamica voleva."
Michele
Scheda dell’autore:
Giulia Mozzini, nata a Verona nel 1995, dopo il diploma al liceo classico si trasferisce a Milano nel 2014 per studiare fotografia all’Istituto Italiano di Fotografia. Si specializza in fotogiornalismo alla John Kaverdash, con il docente e reporter Alessandro Grassani. Nel 2016 espone alla Galleria Meravigli collaborando con Eyesopen!Magazine, nel 2018 partecipa al Milano Photofestival esponendo il lavoro “Morocco”, esposto successivamente alla mostra collettiva “Contemporaneamenti 2018” , indetta dalla galleria l’Arsenale di Iseo. Collabora come giornalista con l’associazione di fotogiornalismo “Nessunopress” e si occupa di reportage incentrati sulla ricerca sociale, indagando l’individuo attraverso il racconto della sua storia personale per portare alla luce quelle microrealtà ancora non conosciute.
Ecco la sua testimonianza:
"Sono uscito di galera con la consapevolezza di essere indietro anni luce rispetto agli altri e quindi non avrei badato a nessun tipo di sacrificio pur di accodarmi alla società civile. Non conoscevo nemmeno Facebook, per dare un metro di misura di quanto fossi indietro. I primi mesi ero in detenzione domiciliare , potevo uscire solo dalle 10 alle 12. Scrissi al magistrato di sorveglianza chiedendogli un’autorizzazione molto dettagliata per poter trovare un lavoro ed effettuare eventuali prove prima di presentargli il contratto. Così mi rimboccai le maniche e la mattina iniziai a presentare cv a raffica ( ovviamente con referenze false) a qualunque posto facesse da mangiare. Non mi interessavano gli orari, le mansioni e la paga, volevo solo lavorare. Dopo mille - le faremo sapere -iniziai la prima prova, il posto era carino e in pieno centro . Il titolare mi mise in uno scantinato insieme a tre ragazzi del Bangladesh a lavare piatti, stoviglie, tritare cipolle e pulire patate. Mi stava bene, dopo tutto era il mio primo lavoro. (...) Nel ristorante dove ero dimostrai subito il mio valore, non guardavo l’orologio, non mi lamentavo mai e lavoravo sodo: facevo 13 ore al giorno per 6 giorni la settimana per 800 euro al mese. Praticamente i soldi che facevo con 2 scooter rubati a 15 anni. (...) In soli 3 anni ero arrivato dove persone qualificate con tanto di studi ed esperienza erano arrivati in 10: questa era la cosa che mi piaceva di più e devo tutto al percorso che ho fatto: se non avessi maturato quella scaltrezza non ci sarei mai riuscito. Lo chef iniziò a infastidirmi così tanto che iniziai a fomentarlo: strategia tipica dei clan dei Casalesi, dopo aver ascoltato milioni di storie di questi criminali che ti raccontavano come instauravano rapporti per uccidere un avversario. Ovviamente in maniera diversa, però io sentivo di meritare il suo posto e lo volevo, per me rappresentava un modo per saziare sia il mio egocentrismo e soprattutto per dimostrare che gli anni che ero stato in galera non erano stati perduti. Iniziai a metterlo contro la direzione finché lui non si sentì così preso da lasciare il proprio posto di lavoro:nel momento in cui lui diede le sue dimissioni si aspettava che io facessi lo stesso, cosa che io non feci perché io volevo il suo posto e non avevo fatto tutto questo per essere il secondo. Diceva sempre Luigi Diana, un killer, che il secondo non è altro che il migliore dei perdenti e io avevo perso troppo per vivere ancora da perdente. Diventai chef, ci misi corpo, cuore, anima, mi sacrificai tanto e tutt’ora oggi lo faccio. Mi accollai responsabilità di cui l’altro chef non si era mai preso carico, impostai una linea diversa dalla sua: non ero il capo della cucina ma il leader, ero quello che quando c’era da fare un lavoro di merda era il primo, che quando c’era da stare in cella a meno 20 gradi era sempre presente, quello che si guadagnava il rispetto dei musulmani in cucina elogiando il loro dio, rispettando il loro credo e salutandoli come la religione islamica voleva."
Michele
Scheda dell’autore:
Giulia Mozzini, nata a Verona nel 1995, dopo il diploma al liceo classico si trasferisce a Milano nel 2014 per studiare fotografia all’Istituto Italiano di Fotografia. Si specializza in fotogiornalismo alla John Kaverdash, con il docente e reporter Alessandro Grassani. Nel 2016 espone alla Galleria Meravigli collaborando con Eyesopen!Magazine, nel 2018 partecipa al Milano Photofestival esponendo il lavoro “Morocco”, esposto successivamente alla mostra collettiva “Contemporaneamenti 2018” , indetta dalla galleria l’Arsenale di Iseo. Collabora come giornalista con l’associazione di fotogiornalismo “Nessunopress” e si occupa di reportage incentrati sulla ricerca sociale, indagando l’individuo attraverso il racconto della sua storia personale per portare alla luce quelle microrealtà ancora non conosciute.
16
settembre 2020
Giulia Mozzini – Life of a Repentant
Dal 16 settembre al 14 ottobre 2020
fotografia
Location
GALLERIE PASSANTE FERROVIARIO VENEZIA
Milano, Bastioni Di Porta Venezia, (Milano)
Milano, Bastioni Di Porta Venezia, (Milano)
Orario di apertura
Visibile tutti i giorni dalle 6:00 alle 24:00
Vernissage
16 Settembre 2020, h 18.30
Sito web
Autore