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extratype #2. La realtà dell’utopia, nella poesia d’arte di Ingeborg Bachmann
Libri ed editoria
Nell’inverno 1959/60, mentre si consumano le ultime sperimentazioni dell’Espressionismo astratto e si espandono Fluxus e Pop Art, Ingeborg Bachmann tiene un ciclo di conferenze che inaugurano la cattedra di poetica all’università di Francoforte. Volendo approfondire le sue ragioni etiche e artistiche (Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, tr. V. Perretta, Adelphi), ci sembra che gli scritti seminariali evochino quella particolare forza di fusione tra mondo artistico e mondo concettuale, che insiste tra l’io della poetessa e la storia che la circonda. Fusione avvertibile nei pezzi di pura analisi, come in quello in cui Bachmann, incline alla riflessione filosofica dedicata all’arte come utopia, commenta la parafrasi kafkiana: «Un’arte dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi». In poche limpide e vibranti parole si evince l’essenza del suo pensiero sull’arte e la letteratura, che, per lei, vale a dire su tutto.
Leggendo le trascrizioni dei seminari, si avverte la sua voce, la sua sensibilità, il suo spirito timico: la forma è piana e pacata, di una trasparenza educata, su Hofmannsthal e Musil. Il senso è audace e inflessibile: l’idea di un’arte che deve nascere nel primo impulso ma, aldilà del gergo originario di Martin Heidegger, una tale arte, già nel manifestarsi della sua forma, contrappone alla vita un’utopia della lingua, di qualcosa che parla, ragiona, ha familiarità con la dimensione concettuale e melica.
Queste lezioni ci confermano che nel ‘900 le parole decisive sull’arte e sulla letteratura le hanno pronunciate i poeti stessi: Proust, Auden e Mandel’stam. Angoscia esistenziale, non visiva, tutta umanizzata, come nella dimensione dell’estetica greca; come il formicolio di una inquietudine della bellezza, che induce ad una pungente e liberatoria disperazione. Resta intorno alle pagine, sospeso, un respiro sensibile, un’avvertenza romantica, sempre vigilata e cheta, per la provvisorietà delle cose umane; e la memoria appare non solo il privilegio di afferrare e serbare il passato, ma la possibilità di un’incursione fantastica nel futuro.
La poetessa coglie ed annota, inventa e costruisce, con industriosa magia; contro il provvisorio, Bachmann oppone la sua dimensione d’artista, fortemente umana, come fu la scelta della Penelope omerica, quando, potendo optare tra l’immortalità della sua comunità e la sua terra, scelse l’attesa come tensione utopica. Così il viaggio poetico comincia lì dove finisce e si conclude la scelta umana. E di qui anche il morso della nostalgia, comune ai nati in una terra circondata dalle montagne, una geografia che ha innato il sentimento dell’utopia, come saldatura del profondo, latitanza dall’occulto e come trasparenza del tempo poetico.
L’arte, sempre l’arte
I presupposti della poetessa sono chiari e innervano la filigrana del viaggio nel dominio della sua parola e del suo percorso umano: «ma l’arte, che da sé non sa neanche definirsi, che si dà a conoscere solo come affronto più che millenario è mille volte compiuto contro una lingua brutta – perché la vita possiede soltanto una lingua brutta – e con questo affronto contrappone alla vita una utopia della lingua; questa letteratura, per quanto strettamente possa essere legata al tempo e alla sua brutta lingua, deve essere lodata per il suo disperato muoversi verso quella utopia e solo così essa può dirsi vanto e speranza degli uomini. I suoi linguaggi più preziosi, nonché quelli più volgari, partecipano ancora di un sogno linguistico; ogni vocabolo, sintassi, periodo, interpunzione, metafora, ogni simbolo esaudisce qualcosa di quel nostro sogno di espressione che non sarà mai pienamente realizzato».
L’avvertibile crescita di questi scritti semplifica sentimenti, rende profonde le loro vibrazioni che si svolgono, in accordo con i moti dell’animo, in un turbolento procedere per corrispondenze vere. Ingeborg Bachmann aiuta a capire i veri profili della personalità dell’artista utopico: «l’arte sempre l’arte; anche l’ideale dell’arte è tutto dentro l’arte; una non-arte ha il suo luogo all’interno dell’arte». Ella scrisse prefazioni a testi di Wittgenstein e saggi sul filosofo viennese, al quale si sentiva vicina. Da Wittgenstein concepì la parola come arte tesa ad andare oltre il confine del dicibile, infatti l’allegoria di Bachmann è una figura poetica infinita, che regge un mondo dove gli elementi che lo compongono sono i reagenti della sfera timica.
Al fondo del mistero, per trovare il nuovo nelle esistenze, è l’inesausta voglia poetica di Ingeborg Bachmann, la vocazione della sua moralità creativa: percezioni descrittive dei segni naturali, del loro policromo intrecciarsi di memoria e tempi, nella freschezza e nell’autenticità di un giornale intimo, evocando l’aroma delle cose. Così un pranzo tra lei e Paul Celan perde i motivi del l’occasionalità, realizzando una performance dell’agapè: un’evocazione di riti e miti sodali dell’antica aura e della bella convivialità, con l’elogio delle corrispondenze. Da queste belle pagine affiora un messaggio da percepire nella particolare luce votiva che lo anima: per l’Europa, la sua geografia e i suoi incantamenti, per la sua gente e quella che vive ed anima i paesaggi della sua dimensione amata e amara.
Ingeborg Bachmann, poetessa del futuro
Negli scritti scocca la scintilla poetica dell’umano, nella sua infinita finitezza, per la quale Bachmann ha optato, evitando la prigionia dell’immortalità. Ci pare ascoltare nella voce arcana della sua terra, o meglio di René Char, poeta a lei carissimo: «a ogni cedimento delle prove, il poeta risponde con una salva di avvenire».
Di Bachmann, non si deve sottovalutare la sua componente di poetessa profonda e socialmente impegnata. Lei è stata, insieme a Paul Celan (di cui scrivevamo nella prima puntata di extratype), la più intensa costruttrice di parole per il futuro, l’immagine più esemplare del verso. Char. Tuttavia la sua grandezza, la sua perfetta similitudine con quella parola che cerca di “sparare” non consiste tanto in un atteggiamento passivo, unicamente interiore, quanto piuttosto in una proiezione esteriore, femminista nel vero senso del termine e, in particolar modo, della comunità degli utopisti. La sua carta d’identità era d’essere giocatrice di scacchi, essere cioè profeta del gioco della vita, annunciatrice della parola sparata nel futuro dell’utopia; ancora oggi, si presenta nella dimensione del principio speranza, della libertà di scandagliare l’oscuro non l’occulto, con la garanzia di un’autodeterminazione per tutte le donne che vogliono rendersi libere.
L’azione di Bachmann è stata preminentemente poetica, tuttavia ha avuto incidenze notevoli nella vita civile dell’Italia degli anni ‘70. Il messaggio di cui era portavoce, era lo stesso messaggio di libertà del gruppo degli scrittori del ‘47. Quindi, rivolto a tutti gli uomini e a tutte le donne, anzi a ogni uomo e a ogni donna, nella propria situazione esistenziale concreta.
In questa epoca di crisi e tensioni, fortemente contrassegnata dalla riduzione degli spazi di libertà, l’aver riproposto alla riflessione una delle raccolte più filosofiche di Ingeborg Bachmann, assume il valore di una testimonianza. Conoscendo meglio le parole che ci ha lasciato tre mesi prima della sua morte, avvenuta a Roma nell’ottobre del 1973, si conoscerà cos’è concretamente la realtà dell’utopia: «Saremo molto più liberi. E cadrà tutto ciò che ora ci fa a pezzi. Non saremo più malati […] liberi gli uni con gli altri […] riscopriremo la gentilezza e riscopriremo l’amore, e questa sarà la nostra libertà».