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A Guidonia il cementificio si trasforma in spazio per l’arte. Con Alfredo Pirri
Arte contemporanea
La progettazione di un ingranaggio in cui arte, impresa e territorio si incontrano e provano a immaginare una metamorfosi. L’obiettivo è la qualificazione di uno spazio all’interno del cementificio Buzzi Unicem, così grande da essere considerato una città dentro la città in cui è sorto: Guidonia (Roma), tra i comuni non capoluoghi di provincia oggi più popolosi d’Italia. Qui il progetto ArenA Buzzi Unicem, avviato dall’omonima azienda, a tutt’oggi attiva, intende intraprendere un processo di ricerca e progettazione al fine di trasformare una porzione del cementificio in uno spazio multidisciplinare che possa accogliere l’espressione delle arti nelle sue diverse forme. Ecco allora che la lungimiranza aziendale bussa alla porta di un artista, per costruire reti e visioni capaci di spostare l’ago della bilancia verso pratiche di innovazione che favoriscano – insieme al welfare aziendale – anche l’ambiente, il contesto urbano e le diverse comunità che lo abitano.
Parola ad Alfredo Pirri.
Non è certo questa la prima volta che la tua pratica artistica si interseca all’architettura. Anzi, potremmo dire che la tua ricerca si nutre e si confronta con l’esistente costruito, la memoria dei luoghi, il circostante e il contesto architettonico che di volta in volta hai incontrato durante i tuoi progetti. Come nasce questa relazione, così intensa e viscerale, all’interno del tuo lavoro? Come può l’arte essere un’agente capace di riqualificare lo spazio urbano?
L’architettura, non solo intesa come esperienza costruttiva ma come lingua armonica e comprensiva di differenti materie e discipline, rimane la materia di cui sono fatti i sogni di generazioni di artisti. La mia, per esempio, quella che ha incominciato a bussare alle porte del mondo dell’arte a cavallo fra gli anni ottanta e novanta, ne ha subito un fascino enorme. L’architettura chiama alla presenza, rendendone possibile la convivenza, categorie all’apparenza contrapposte fra loro: quella della forma e quella dell’esistenza reale, l’astrazione solitaria e l’abitare comune con la sua vitalità travolgente, la luminosità e la solidità, frontalità e lateralità …. Tutti elementi ben presenti, a volte tutte insieme, nel mio lavoro ma anche in quello di altri artisti soprattutto europei di quegli anni. All’inizio, nonostante i lavori fossero quasi sempre rigidamente inchiodati al muro, questo fascino era ancora più forte. Il loro colore ad esempio spesso era il risultato di campionature sentimentali (ma non per questo immuni dalla realtà) di parti di città. Per esempio due mostre, la prima nella galleria Tucci Russo di Torino dal titolo “GAS”, la seconda a Barcellona dal titolo “Colorea”, entrambe nel 1990, erano interamente realizzate pensando alle facciate di edifici, in particolar modo ai palazzi che si iniziavano a restaurare a Piazza Vittorio, sintesi perfetta, mi parevano, di colori popolari e irriverenti rispetto alla cultura del restauro architettonico insieme a forme rigide, quasi astratte estrapolate dalle facciate. E anche alle strade cittadine punteggiate da tombini realizzati con reticoli geometrici di ghisa usati direttamente, per strada, come matrici litografiche. Dico brani e non porzioni, punteggiate e non presenti o incastrate nella strada, pensando proprio al loro aspetto corale che fa del paesaggio cittadino un paesaggio sinfonico e poliritmico. Dopo questo approccio come dicevo sentimentale, il rapporto con lo spazio architettonico è divenuto maggiormente coinvolgente fino ad immaginare lavori come quello recentemente pensato per il cortile di fronte al Museo Della Città di Livorno, un’opera stabile che realizza un giardino di bambù al centro del quale ho posto un lampione colorato con la speranza diventi un punto d’appuntamento cittadino. Passando per altri lavori come “Via d’ombra” a Villa Medici nel 2000 oppure l’opera “La stanza di Penna” dedicata al poeta Sandro Penna del 1999 dove non c’è alcun dialogo con la città ma è la stessa opera a proporsi come una città fatta di libri vista dall’alto. Ma venendo alla tua domanda sulla capacità dell’arte di modificare lo spazio urbano, ebbene non lo so… potrei risponderti con un “sì” energico e convinto e non direi qualcosa in cui non credo, solo che penso che bisogna essere molto delicati nei confronti di tutti gli spazi cittadini, centrali o periferici che siano … l’arte cambia le persone, ha cambiato me, cambia te, perché sfugge dalle mani di chi la fa e di chi se ne occupa per dirigersi in luoghi indefinibili, forse, in quei luoghi, tutto sarà diverso, luminoso e bello.
Il 19 ottobre si avvia la prima fase di progettazione di ArenA Buzzi Unicem che vede, insieme a te, il coinvolgimento di diversi attori tra cui l’architetto Paolo Desideri, con il quale hai collaborato in diverse occasioni (ricordiamo il bellissimo Museo Archeologico di Reggio Calabria), l’Università Roma 3, gli studenti del Laboratorio di progettazione architettonica, i dottorandi di Paesaggi della città contemporanea e alcune istituzioni locali quali l’Istituto di istruzione superiore Majorana. Moltissimi i giovani coinvolti nel progetto: in totale più 50 studenti che, dopo un sopralluogo nel cementificio con l’azienda e gli attori coinvolti, si ritireranno in tre giornate di charrette d’architettura. Ci vuoi raccontare di cosa si tratta?
Si tratta di dar vita ad un’esperienza resa possibile dalla Buzzi Unicem e dall’entusiasmo del suo direttore operativo Antonio Buzzi che, insieme al personale direttivo dello stabilimento di Guidonia, hanno manifestato il forte interesse di trasformarne una (piccola) parte in un centro culturalmente attivo all’interno della fabbrica e aperto a tutti. Un’esperienza rivolta a giovani che avendo già studiato architettura per tre anni, avviano la loro fase specialistica confrontandosi con un’ambiente che è allo stesso tempo un paesaggio e una macchina, due cose tanto connesse fra loro da renderne difficile la separazione e una visione distinta. Quest’esperienza comune avviata da un mio esercizio pittorico solitario (ma non solipsistico) ha poi visto l’adesione, come dicevi, dell’architetto Paolo Desideri e anche della sua classe di progettazione dentro la facoltà di architettura di Roma 3. Si tratterà di cercare insieme forme e contenuti fra loro abbinabili che disegneranno, durante la charrette, non solo il come ma anche il cosa. L’oggetto insieme alla sua funzione, dati per fissare alcuni parametri che non sto qui a dire. È importante sottolineare che si tratta non di un edificio industriale abbandonato ma in piena attività produttiva, con personale interno ed esterno che lo abita e anima con differenti operazioni lavorative. Quindi lo spazio ArenA sarà rivolto anche a chi tutti i giorni dentro la fabbrica vive e lavora. Si tratta di creare un luogo nella sua natura costruttiva, spaziale e poetica partendo dal un nome Arena. Cosa evoca questo termine? Le arene estive dove si balla, i luoghi di spettacolo musicale o di cinema, quelli dove si scontrano uomini e tori etc. tutti luoghi di confronto e scontro dove lo stare insieme non esclude lo stare da soli, dove le modalità del sostare collettivo si contratta e stabilisce di momento in momento non avendo regole fisse e imposte né da un’autorità politica o morale né dalle mode del momento. Per questo si pensa ad uno spazio composto di elementi mobili che si agglomerano in funzione dell’uso momentaneo. Uno spazio che prende forma pensando al movimento del fiume che espandendosi e restringendosi forma gli arenili dove si deposita la sabbia, la rena, polvere minerale che ha una funzione importante nella formazione del calcestruzzo e della materia, nuovamente, solida anche se non immortale.
In una fase preliminare di ideazione di ArenA Buzzi Unicem hai realizzato degli acquarelli che hai descritto come “Immagini guida, che definiscono un clima, una struttura immaginativa”. Quale può essere il ruolo che gioca oggi un artista in un processo di progettazione che nasce all’interno di un’azienda? Quali sono le relazioni e le opportunità possibili tra arte, impresa e il territorio in cui questa opera?
Non sono adatto e non mi piace dettare regole. Ogni esperienza ha, o dovrebbe avere le sue, che vanno costruite sull’esperienza diretta e sul rispetto di esigenze individuali da parte di tutte le figure coinvolte. Se si pensa di determinare in anticipo linee guida comportamentali, creative etc. si sbaglia quasi sempre. Infatti alcune di queste esperienze, codificate in base a ragionamenti e comportamenti esclusivamente “socialmente utili” non sono affatto vitali, rispondono solo al bisogno di onorare debiti comportamentali e politici contratti con luoghi e persone che vengono ripagati, troppo spesso, con la falsa moneta di una qualità bassa e decorativa. All’inizio, non ho pensato al cosa fare in quello spazio, ma al come muovercisi dentro, e l’ho fatto con i miei strumenti, quelli della pittura, realizzando dei piccoli acquerelli con forme circolari che si muovono, si espandono e ritraggono come fiumi, mutando colore e intersecandosi come vetri colorati che si sovrappongono. Lavorare a questi piccoli acquerelli mi ha fornito principi interni trasformando, appunto, dei semplici acquerelli in immagini guida pronte ad essere trasformate ancora e sviluppate sia nel corso della charrette sia dopo, nella progettazione definitiva. Già, dal primo confronto con Paolo, queste forme astratte hanno iniziato a produrne alcune volumetriche, di cui però abbiamo deciso di non tenere conto nel confronto con gli studenti per non influenzarne la visione, che, speriamo invece rimanga quanto più libera possibile. Un’altra cosa mi hanno fatto comprendere meglio questi piccoli esercizi: al fatto che si possa lavorare con forme astratte avendo in mente qualcosa di esistente e non penso tanto a forme che sintetizzano geometricamente quelle complesse della realtà, bensì a come l’astrazione intesa come qualcosa di autonomo dalla realtà entri in gioco in ognuno di noi fino a tramutarci in sensibilità straniate e pronte a trasferirsi dentro il cosiddetto reale, caratterizzandolo e fornendogli nuovi modelli, nuovi pesi e nuove misure.