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Gates alla Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte. Intervista a Diego Cibelli
Personaggi
L’inaugurazione della mostra personale di Diego Cibelli dal titolo “Gates”, a cura di Alessandra Troncone, salvo slittamenti causa Covid-19, è rubricata per il prossimo il 14 novembre a Napoli, nella Sala MUDI-Museo Didattico della Ceramica e della Porcellana presso l’Istituto Caselli-de Sanctis/Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte
Il titolo “Gates” allude a portali intesi come luoghi di attraversamento, passaggi che rendono possibile la connessione tra momenti storici distanti e diversi scenari. Punto di partenza per Diego Cibelli, che questa volta gioca in casa, nella sua città natale, è il patrimonio borbonico, e l’influenza che gli studi sulle antichità e sulle scienze naturali promossi già sotto il regno di Carlo III di Borbone hanno avuto sulla produzione ceramica del XVIII secolo, contesto nel quale si inserisce anche la nascita della Real Fabbrica di Capodimonte.
A partire dagli stampi in gesso della Real Fabbrica e dallo studio di volumi antichi, quali Herculanensium voluminum quae supersunt pubblicato dalla Reale Accademia Ercolanese di Archeologia (1793), Flora Napolitana di Michele Tenore (1811-1838), Olympia dell’archeologo tedesco Ernst R. Curtius (1890-1898), Cibelli ha collezionato un repertorio di referenze visive che sono state successivamente mescolate, creando delle immagini ibride dove figure e strati temporali si sovrappongono. Queste immagini sono trasposte su tavolette in ceramica, decorate a bassorilievo e incise, e vanno a comporre degli ipotetici portali nei quali suggestioni antiche e contemporanee rivivono in nuove narrazioni.
In attesa di visitare questa mostra, abbiamo incontrato Diego Cibelli per un’intervista a tutto tondo.
L’intervista a Diego Cibelli
Come definiresti Diego Cibelli?
«Faccio spesso un gioco con le persone che amo, le proietto nel futuro, le osservo non con la loro età anagrafica attuale, ma avanti con gli anni…Questo mi permette di farmi un’idea più ampia su come comprendere i loro bisogni…Cerco di stare 10 passi in avanti rispetto alla persona che amo, e capire cosa le possa essere utile nel suo domani. Questo mi rassicura e, allo stesso tempo, se qualcuno lo fa con me, mi rassicura altrettanto.
Come mi definirei? Con due occhi! Il primo dieci passi in avanti, e il secondo nel presente».
Dove sei nato e dove vivi?
«Sono nato a Napoli, e vivo tra Napoli e Berlino».
Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?
«Vorrei essere nato nel Regno di Fantasia e anche io, come Bastian, avrei voluto compiere tutti i viaggi possibili per distruggere il Nulla».
Quando e come è nato il tuo interesse per l’arte?
«Nei primi anni della scuola elementare. Mi ricordo che il quinto anno seguivo solo le lezioni nei giorni in cui c’era la maestra di arte: il resto delle materie le saltavo, non entravo neppure a scuola… Quando non andavo a scuola giravo per le strade di Scampia, mi sceglievo dei posti nascosti e sfogliavo libri di storia dell’arte. Non leggevo i testi, restavo assorto sulla forza delle immagini, ci entravo dentro. Ho divorato così tanti testi negli anni. L’unico posto che frequentavo assiduamente (oltre casa) era Port’Alba, una zona di Napoli con tante librerie, con bancarelle di libri usati colme…Lì potevo trovare un ponte verso ogni epoca artistica, e io mi sentivo al settimo cielo, sicuro di me e amato».
Qual è stato l’incontro più significativo per la tua formazione?
«Probabilmente nel 2007 la mostra di Sophie Calle dal titolo “Take Care of Yourself”, allestita all’interno del Padiglione della Francia in occasione della 52ma Biennale di Venezia».
C’è una mostra (non tua) che ricordi con particolare intensità?
«Non una vera e propria mostra ma, tra i 13 e i 18 anni, ho avuto la grande fortuna di viaggiare per tutta l’Europa. Questo mi ha permesso di visitare tanti musei, e mi ricordo che facevo estrema difficoltà a contenere il mio desiderio: avvertivo una grande forza in quei luoghi, mi sentivo in dialogo con la Bellezza che contenevano, mi facevo completamente assorbire da essa».
Quali sono gli artisti e le opere che più ti hanno influenzato?
«Yoko Ono, in particolare con Grapefruit; Bruce Nauman con la sua capacità di plasmare attraverso la parola dei luoghi fisici; e poi Felix Gonzales-Torres, Francis Alÿs, Italo Rota, Andrea Branzi, Ettore Sottsass».
Qual è la tua giornata tipo?
«Quando sono a Napoli ho la possibilità di dedicarmi completamente alla ricerca e alla produzione: ho uno studio e, da un anno in qua, anche due assistenti. Lavoriamo dalle 9 fino alle 19.
Utilizzando la ceramica come materiale, ho la grande occasione di “estendere” il mio studio in altri luoghi. Per esempio, per la cottura dei manufatti mi servo di diversi forni presenti sul territorio di Napoli e hinterland: tra questi, quelli della Real fabbrica, a Capodimonte, e quelli di Ciro Liquori ad Arzano. Inoltre, per la ricerca dei colori, mi avvalgo a Salerno del laboratorio diretto da Claudio Cipriano.
Quindi, la mia giornata tipo consiste nello stare a studio, produrre, prendere la macchina per spostarmi tra forni e laboratori e altri luoghi funzionali alla mia ricerca. Uno dei momenti che più amo durante la giornata è quello della cucina, quando mi allontano dallo studio per preparare il pranzo per i miei assistenti: mi dicono sempre che il sapore dei miei piatti li stupisce, ogni volta diverso e unico, come i lavori che producono con me. Una mia assistente è cresciuta in Tailandia, da pochi anni vive qui in Italia. Sua madre gestisce un ristorante a Napoli, così ci scambiamo le ricette e gli ingredienti. Per questo posso definire la mia cucina “fusion”».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«Se consideriamo il cibo come rito, forse allora sì. C’è sempre tanto cibo a studio ad accompagnare le nostre giornate di lavoro».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Sempre, assolutamente. Per quanto possa avere un disegno finale del progetto, devo sempre rivedere i piani, la ceramica e la porcellana hanno le loro proprie leggi in quanto materia. Ogni mio progetto, a un certo punto, si ritrova a leggere metaforicamente le leggi fisiche, e cerca di instaurarvi dei dialoghi: adoro come l’organicità della materia mi presenti sempre delle possibilità su come continuare la mia ricerca».
Come descriveresti la tua ricerca?
«Con due occhi. Il primo dieci passi in avanti, mentre il secondo nel presente».
Hai mai avuto dei momenti di crisi durante il tuo percorso artistico? Come li hai superati?
«Non ho mai avuto dei veri e propri momenti di crisi. Diciamo che la mia mente non batte mai sullo “stesso chiodo”. Ho grande fiducia nelle strade che la mia ricerca può aprire e di come possa rimanerne sorpreso. Sento sempre di potermi meravigliare, e questa sensazione rigenera la mia mente. Ho questa fiducia granitica perché sono accompagnato dalla passione e dalla costanza mentre lavoro. Così i risultati e le occasioni che si presentano mentre lavoro si rivelano belli e gioiosi.
L’altro giorno controllavo la cronologia delle immagini sul mio iPhone. Al di sopra di esse viene riportato giorno, mese e anno. Mi sono reso conto che i miei anni scorrono tra periodi di ricerca e periodi di produzione. Appena sto per terminare un periodo di produzione, già si intravedono nelle foto successive le tracce della prossima ricerca che apriranno a una nuova, diversa produzione. Godere di questa continuità permanente è un grande bene da tutelare e da rispettare. Rispettare la dimensione della ricerca e della produzione per me significa dare significato e forma senza spezzare il filo con quanto fatto in precedenza.
In ogni modo, non ho mai avuto delle crisi specifiche. Piuttosto, se mi sento stanco mentalmente, so come rigenerami, anche facendo attività molto distanti dall’arte».
Qual è il filo della tua ricerca e le sue pratiche?
«Il filo della mia ricerca si lega molto spesso all’osservazione dell’essere umano in relazione alle modalità con cui abita i proprio luoghi, al suo senso di appartenenza a essi e agli strumenti con cui ne costruisce la propria narrazione. Sono molto interessato anche agli oggetti che abbiamo in casa, come la loro destinazione funzionale riesca a raccontare il nostro modo di vivere. Il filo della mia ricerca consiste nel rintracciare delle narrazioni inedite degli “scenari” che ogni volta parlano della relazione tra uomo e ambiente. Le mie pratiche e i miei prodotti cercano di assumersi questa responsabilità: raccontare, tramite la loro possibile funzione, questa relazione».
A che punto decidi che un tuo lavoro è finito?
«Quando quello che sto facendo mi conduce a un’altra storia. Quella nuova sembra sempre che inizi dove la precedente si è conclusa».
Mi parli della fisicità concreta nel tuo lavoro?
«Ci sono diversi livelli di fisicità che entrano in gioco mentre sto nel mio studio: il mio, in prima persona, si mette in gioco, e cerca con molta spontaneità di essere costante. Poi c’è il livello di fisicità dei miei assistenti e, infine, quello della materia».
In quale direzione sta andando la tua ricerca artistica?
«In quella di individuare una funzione per gli oggetti che creo, una funzione che sia in grado di interpretare e narrare “storie di relazioni” tra uomo e ambiente. Nel mio studio sto lavorando alla produzione in ceramica di diverse linee di arredamento che si inspirano a diversi scenari teorici. Tra questi c’è Meditation in an Emergency, un lavoro presentato questo autunno a Rotterdam, nelle sale della Cinnnamon Gallery».
Cosa restituisce la ceramica al tuo lavoro?
«Uno sguardo nel presente e uno nel futuro».
Pensi che l’artista sia ancora in grado di incidere sulla realtà?
«Non saprei. Oggi come oggi, credo che ci siano diverse narrazioni che l’arte può aprire e continuare a ispirare; ma quanto a incidere sulla realtà credo che, malgrado tutto, sia sempre la realtà in sé stessa a incidere sulle cose. Magari la politica, le innovazioni nel campo della medicina, l’arte e così via, possono mobilitarsi in diverse esperienze e applicazioni per fornire dei contribuiti, delle opportunità, delle modalità alternative di lettura, comprensione e interpretazione della realtà».
L’attuale esperienza dell’emergenza sanitaria del Covid-19 quale riflessione ti ha fatto maturare riguardo la tua ricerca, il tuo stesso ruolo d’artista, il senso dell’arte e della vita più in generale?
«Di fronte a questo scenario ho avuto la sensazione che stessimo di nuovo tornando alla stato zero della nostra esperienza sulla terra: mi sono sentito per la prima volta preistorico, senza strutture e senza documenti scritti. L’ambiente si è manifestato in carne e ossa, ci ha parlato in modo chiaro e da vicino. Ora ognuno di noi, come è normale che sia, ha una testimonianza diversa di questo racconto. Diversa perché ci sono in gioco troppe e diverse etiche per interpretare quello che l’ambiente ha detto durante il Covid-19. La mia memoria di quel racconto resta fissa su un’immagine: il cerchio, il cerchio della danza. Per me rappresenta tanto questa immagine: la possibilità di trovare un senso comune, un’unica direzione che viene a determinarsi con il coordinamento di diversi desideri in gioco».
Come vedi il futuro?
«Come un ritornello che fa: giro giro tondo…».