01 dicembre 2020

Wang Yancheng alla Galleria Nazionale di Roma: l’intervista ai curatori

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Wang Yancheng, uno degli artisti cinesi più noti a livello internazionale, espone alla Galleria Nazionale sotto il segno del dialogo e dello scambio reciproco fra tradizione orientale e ricerca pittorica occidentale

Wang Yancheng, artista cinese, francese d’adozione, è approdato a Roma con una personale che riunisce i suoi lavori più recenti e rappresenta la sua consacrazione museale in Italia, promossa dalla Galleria Nazionale, organizzata dalla Fondazione Internazionale d’Arte Moderna e Contemporanea insieme alla Fondazione per l’Arte Cinese in Italia. In attesa che l’esposizione riapra i battenti, abbiamo intervistato i due curatori, Maria Giuseppina Di Monte e Gabriele Simongini.

Come nasce l’idea di questa mostra?

Gabriele Simongini: «Wang Yancheng è celebre a livello internazionale, meno noto in Italia. Ho avuto il piacere di conoscerlo in occasione della personale all’Accademia di Belle Arti, alla cui presentazione partecipò anche la direttrice della Galleria Nazionale, Cristiana Collu. Quell’incontro fu il primo germe dell’idea di una grande mostra a Roma».

Maria Giuseppina Di Monte: «Ho incontrato l’artista lo scorso anno alla Galleria Nazionale, poco prima dell’inizio della pandemia. Era molto interessato all’arte dell’Ottocento italiano, una parte di collezione meno nota all’estero, dimostrando una sensibilità estetica originale, variegata e puntuale».

Le tele esposte sono decisamente macro. Il titolo della mostra, invece, Macro e Micro, esprime i due poli dell’astrattismo di Yancheng: l’incommensurabile e l’infinitesimale, l’ordine formale e il movimento in espansione, la realtà visibile e quella interiore. “Unendo la scienza e l’arte si può scoprire la verità del futuro”, sostiene l’artista. Che significato ha il rapporto tra questi opposti nella sua poetica e come si materializza nelle sue opere?

Di Monte: «In uno dei saggi raccolti nel catalogo della mostra, Yancheng cita “Il tao della fisica” e altre opere divulgative che testimoniano un orizzonte culturale ampio e la volontà di avvicinarsi alla scienza per trarne spunti e suggestioni emotive. Nei suoi scritti sull’arte cinese, il teorico Peng Feng parla di micro e macro descrivendo frammenti che si espandono sulle superfici delle opere fino ad assumere una forma dilatata che significa lo spazio cosmico. Anche nell’arte occidentale esiste questo aspetto: nell’ultimo Monet, punto di riferimento di Yancheng, il macrocosmo e il microcosmo coincidono».

Simongini: «Il macrocosmo è lo spazio sconfinato dell’universo, mentre il microcosmo, dal punto di vista scientifico, è il quanto, particella indivisibile. Nella pittura di Yancheng, gli elementi di macro e micro si traducono nell’evocazione del vuoto e nell’importanza espressiva di ogni singola goccia di colore. Le sue opere sono fondate su quello che io chiamo “l’infinito finito”: ciascuna di esse è una porzione confinata, per quanto enorme, che rappresenta un frammento di infinito».

La dialettica tra macro e micro ne richiama un’altra, propria delle culture dei due Paesi in cui l’artista ha vissuto, la Cina e la Francia. Come si traducono nel suo linguaggio le due visioni del mondo, quella Orientale e quella Occidentale?

Di Monte: «La ricerca del grande nel piccolo e del piccolo nel grande coincide con l’idea bergsoniana di “Materia e memoria”, per cui tutto muta e permane al tempo stesso. L’idea di fondo è quella di giungere all’equilibrio degli opposti, che per la spiritualità orientale non costituisce una contrapposizione e neppure una sintesi, ma semplicemente il suo continuo mantenimento».

Simongini: «Aggiungo una curiosità: il nome Wang Yancheng può essere tradotto dal cinese mandarino come “il re del cambiamento”. Il concetto del divenire è presente sia nel pensiero taoista che nella fisica occidentale ed è l’anima del lavoro di Yancheng, in cui arte, scienza e filosofia si fondono. Nel Taoismo, la realtà non è inerte, ma vibrante e mutevole, basata sulla lotta continua della natura contro l’inerzia».

Entriamo nel vivo dello stile dell’artista. Le sue gocciolature e pennellate incisive hanno la gestualità dell’Espressionismo astratto e le sue densità materiche sono un’eco dell’Informale europeo. Il suo è stato definito un “astrattismo lirico” come quello di Kandinsky, ma le macchie di colore rarefatte e vibranti di Yancheng evocano i paesaggi dissolti dell’ultimo Monet e le onde in tempesta di Turner. Secondo il critico Dong Qiang, “la sua astrazione è prima di tutto fisica e visuale”. In che modo l’artista concilia la visione intima, espressionista, e quella retinica, impressionista?

Simongini: «Quella di Yancheng è concettualmente una pittura di paesaggio. Le sue immagini astratte sono reminiscenze della regione cinese da cui proviene, lo Shandong, e il soggiorno in Francia è stato decisivo per l’incontro con le opere materiche di Courbet e con le “Ninfee” di Monet. Nella sua pittura c’è quella che io chiamo un’“anima atmosferica”, che registra i cambiamenti della natura ingenerando una sintonia con i sommovimenti dell’anima».

Di Monte: «È interessante che la passione per l’arte di Yancheng, che da bambino voleva fare il pilota, sia nata nello studio del padre, un collezionista di acquerelli e opere calligrafiche. L’artista racconta di un suo disegno realizzato di nascosto su un acquerello di pregio, seguito dal feroce rimprovero del padre. Dopo il trasferimento in Francia, Yancheng è diventato un assiduo frequentatore di gallerie e musei europei. Un suo riferimento imprescindibile è Turner, che trasforma la pittura di paesaggio in una pittura cosmica in cui affiora la poetica del sublime. Trovo delle affinità anche con i grafismi di Twombly, che riconducono all’origine dell’arte figurativa cinese, la calligrafia».

Abbiamo parlato di opere materiche. Attraverso quali materiali e tecniche si realizza la vocazione tattile dei dipinti di Yancheng?

Di Monte: «Nella sua ricerca esiste una forte volontà di sperimentazione di materiali inediti, tanto che l’ho visto dipingere, ad esempio, utilizzando il vino».

Simongini: «L’indicazione “olio su tela” è dovuta all’orgoglio degli artisti cinesi nel perpetuare una tecnica tradizionale considerata nobile. In realtà, l’artista ha aggiunto della sabbia alle vernici. In base alle sue esigenze espressive ha saputo rendere il colore molto denso e pastoso o molto liquido attraverso l’uso ben controllato della trementina. Durante un nostro incontro mi raccontava della sua intenzione di utilizzare il laser, che richiama il suo rapporto con la scienza, e alcuni organismi che crescessero sulla tela, come funghi e muffe. Nella sua poetica questa idea di crescita organica è fondamentale: la tela è una membrana vivente che si trasforma e muta».

In questo modo, entrerebbe in gioco la casualità. Esiste invece una dimensione performativa nel suo lavoro?

Simongini: «Sì, le tele di grandi dimensioni, che Yancheng lavora a terra e poi sistema a parete per controllare gli effetti di gocciolamento del colore, richiedono un coinvolgimento fisico non indifferente. Dopo le suggestioni del gruppo giapponese Gutai, il contatto con l’Espressionismo astratto e l’Informale ha portato l’artista a rafforzare il lirismo della pittura di origine con un impegno corporeo e “muscolare”».

Parliamo dell’allestimento della mostra. Gli spazi ariosi della Galleria Nazionale concedono ai dipinti il loro naturale respiro e permettono una fruizione lenta e immersiva. Come influisce questo aspetto nella percezione delle opere?

Di Monte: «La percezione dei grandi formati richiede una sorta di inquadratura “a zoomata” e la Galleria Nazionale, con il suo forte carattere stilistico e importante valore storico, offre questa possibilità come pochi altri musei in Italia. Per l’allestimento abbiamo puntato sull’idea dell’unicità dell’opera, valorizzata dedicando alle grandi tele un’intera parete o un’intera sala. Sfruttando i lunghissimi scorci dati dalla successione continua degli spazi, abbiamo privilegiato alcuni tagli prospettici che pongono in relazione le opere e le arricchiscono di significati».

Le tele sono esposte secondo un criterio estetico, dovuto al carattere omogeneo del linguaggio di Yancheng e al rapporto con lo spazio architettonico. Come avete scelto le singole opere e come ha contribuito l’artista al progetto curatoriale?

Simongini: «L’artista non è potuto venire in Italia al momento dell’allestimento, ma ha fornito un progetto piuttosto dettagliato che poi abbiamo dovuto riadattare alle esigenze pratiche dello spazio espositivo».

Di Monte: «È stata privilegiata la produzione più recente dell’artista, che è sempre la più importante, per far conoscere in Italia gli ultimi esiti della sua poetica. La maggior parte delle opere è stata realizzata tra il 2019 e il 2020 in modo site-specific, appositamente per lo spazio della mostra, mentre il grande trittico del 2018 è stato scelto in quanto unicum. L’idea di inserire un dipinto del 2011 è stata dell’artista, che desiderava fissare in una sorta di focal point il principio di questa nuova ricerca sul concetto di micro e macro».

La “temperatura emotiva” dei dipinti è data soprattutto dai colori, a volte torvi, altre molto sgargianti. Come sta cambiando la poetica dell’artista e in che modo le sue ultime opere differiscono dalle precedenti?

Simongini: «Secondo me la sua arte sta diventando sempre più libera e personale. A dicembre mi diceva che il suo obiettivo è quello di “rileggere con occhi nuovi la cultura orientale attraverso quella occidentale”: il suo è un viaggio verso le origini compiuto con uno sguardo rinnovato, che lo sta liberando dalle definizioni culturali. Yancheng è un “radicante”, termine che nasce dall’unione di “radici” e “viandante”: un uomo che non si radica in nessun luogo, ma porta nel mondo le proprie radici».

A proposito di nuovi occhi, non possiamo non fare riferimento al particolare periodo storico che stiamo vivendo. L’intenzione di Yancheng è quella di “lasciare la vita sulla tela”, attraverso “il dialogo tra l’uomo, l’universo e la natura”. Quale pensate sia il suo messaggio più importante e perché bisogna andare a vedere la mostra?

Di Monte: «Io spero che questa pandemia rappresenti uno spartiacque attraverso il quale ripensare le modalità della fruizione museale. Occorre riaffermare l’antica idea dell’Erlebnis, l’incontro diretto e attivo con l’opera in quanto esperienza».

Simongini: «Realizzare una mostra del genere in questo momento è un vero e proprio atto di coraggio e di speranza. Credo che la pittura di Yancheng trasmetta un messaggio di “ego etico” ponendoci di fronte al bisogno di ritrovare una relazione di armonia con la natura, nella quale l’uomo è un elemento tra gli altri. Controcorrente rispetto a un mondo che sta vivendo di distanze, questa mostra ci dice, con un po’ di nostalgia, che esistono densità e trasparenze che vanno vissute fisicamente».

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