-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Social Network e censura, amore antico
Attualità
Che i social network fossero organi deputati alla censura già lo sapevamo. Quante volte ci siamo arrabbiati perché le “linee guida della community” hanno censurato immagini di opere d’arte, per esempio, lasciando bene in vista profili che hanno fatto la loro fortuna incitando l’odio contro qualcosa o qualcuno?
Ma evidentemente nella morsa della crisi che sta aleggiando in questi momenti sulla situazione degli Stati Uniti i social – Facebook, YouTube e Twitter in primis, ma ci sono anche Twitch, Snapchat, Amazon e anche Google Play – si stanno probabilmente sentendo come il Drago all’arrivo di San Giorgio: molto in pericolo.
E così, senza nessuno spazio all’immaginazione (se ancora qualcuno crede che questi signori lavorino a nostro favore) i colossi del Big Tech hanno iniziato da qualche giorno l’epurazione: sospesi, bloccati, censurati dalla rete centinaia di migliaia di profili, ovviamente a partire da quello dell’ancora Presidente degli Stati Uniti (Joe Biden dovrebbe giurare tra una settimana) e via a ruota a tutti i pesci più piccoli, compresi i liberi cittadini che usano l’hashtag #stopthesteal.
Qui però non si tratta di difendere Donald J. Trump o chi vorrebbe vederlo morto, ma di mettere in chiaro la linea sottile su cui si muovono i social media, e il fatto che sì, si stanno comportando come i più autorevoli censori della dittatura di pensiero. Roba che Stalin sarebbe veramente orgoglioso del lavoro svolto.
La questione è semplice: i social network, in questo momento, si stanno muovendo come editori. In parole ridotte allo zero, l’editore è colui che viene ritenuto responsabile quando pubblica un autore i cui messaggi ledono dignità o, appunto, incitano all’odio, alla violenza, alla calunnia e così via. Dunque l’editore è libero, a sua discrezione, di rimuovere, censurare o ritirare la pubblicazione o, in caso di contenziosi e tribunali, di difendere il lavoro, di pagarne di spese, e di essere condannato. Con o senza l’autore.
I social si muovono invece forti della Sezione 230, una vecchia legge statunitense che li mette al riparo dai contenuti pubblicati dai loro utenti. I network non sono considerati “media”. Il testo della Sezione 230 infatti è il seguente: “Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”: i social network si sollevano quindi dalla responsabilità dei contenuti che vengono pubblicati sulle loro piattaforme.
Dunque se io posto un incitamento antisemita, omofobo e chi più ne ha più ne metta il responsabile sarò io stesso, non il signor Zuckerberg. Che in questo caso – come in migliaia d’altri – si è comportato come editore pur non essendolo, e dunque sollevandosi anche dalle responsabilità civili e penali che l’essere editore comporta.
A ri-dunque se Donald Trump e amici incitano all’odio e alla violenza saranno i tribunali a dover decidere a riguardo nelle dovute sedi, non di certo le linee guida dalla community. Soprattutto se, come è ben dimostrabile, i “Kill Donald Trump” sono stati tutti belli al loro posto fino a poco fa (nell’immagine sottostante il tweet postato il 6 gennaio è stato rimosso ieri). Come mai questa disparità? Speriamo vivamente che anche gli odi trovino il giusto peso sulla bilancia, visto l’odio con cui si accoglie l’odio della “destra” e l’amore con cui si culla l’odio della “sinistra”.
Una cosa, per fortuna, è certa: tutta questa situazione non sta per niente passando inosservata, al di fuori (ovviamente) dell’Italia, dove nessuna forza politica si è pronunciata.
Si è sbottonato invece il Premier Messicano Andrés Manuel López Obrador – socialista dichiarato, mica liberale come l’omologo Trump – preoccupato per il potere incontrollato dei Big Tech parlando di una “inquisizione per gestire l’opinione pubblica”, così come la cancelliera Merkel ha riferito che lascia increduli “la completa chiusura dell’account di un Presidente eletto”.
Bruno Le Maire, Ministro dell’Economia francese, ha definito la questione una “oligarchia digitale pericolosa per la democrazia”; nemmeno a Boris Johnson è piaciuto quello che è successo negli Stati Uniti, e Manfred Weber, dal parlamento europeo ha dichiarato: “Non possiamo lasciare che sia la Big Tech americana a decidere come possiamo o non possiamo discutere online”. Commenti simili sono fioccati anche da Polonia, Ungheria, Norvegia, Australia e Russia, dove Putin ha firmato una legge che consente di bloccare e sanzionare Facebook, twitter e YouTube se giudicati colpevoli di censurare o discriminare i cittadini russi. Il dittatore agisce? Con il plauso dell’opposizione, visto che Alexi Navalny (il nemico senza partito del Presidente Vladimir) dice: “Le azioni della Silicon Valley portano i segni dell’autoritarismo. Queste aziende private – lo abbiamo visto in Russia e Cina – diventano i migliori amici dello stato e gli abilitatori di censura”.
Chissà se è chiaro il messaggio, ma a quanto pare almeno agli azionisti sì: ieri a Wall Street il titolo di Twitter ha perso il 20 per cento in apertura, mentre sono 15 milioni gli utenti che hanno abbandonato Facebook negli ultimi 3 anni…e negli ultimi 3 giorni?