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Dopo il San Sebastiano di Raffaello, altre tre grandi opere della storia dell’arte, il San Giovanni Battista, il San Francesco in meditazione e il Narciso, capolavori di Michelangelo Merisi da Caravaggio, approdano nella collezione virtuale di Haltadefinizione. Le tre opere verranno fotografate con avanzate tecnologie, per effettuare delle riproduzioni ad altissima definizione che permetteranno di “entrare” nella pittura, per ammirare da vicino le incredibili capacità pittoriche del genio di Caravaggio del quale, nel 2021, ricadono i 450 anni dalla nascita.
«La digitalizzazione con tecnologia gigapixel o gigapixel+3D permette ai musei di raggiungere diversi obiettivi: da un lato è funzionale al monitoraggio dello stato di conservazione dei dipinti e alle finalità di studio e ricerca, dall’altro aumenta gli scenari di valorizzazione, permettendo, ad esempio, alla collettività di accedere alla visione dei capolavori anche a distanza in forma digitale», ha spiegato Luca Ponzio, fondatore di Haltadefinizione. «A tal proposito, nel 2019 Haltadefinizione ha siglato un accordo per la valorizzazione e promozione delle collezioni statali con il Ministero per beni e le attività culturali e per il turismo. Le tecnologie di acquisizione e di restituzione digitale possono essere applicate a qualsiasi tipologia di oggetto culturale: dipinti, affreschi, manoscritti, statue».
I tre capolavori di Caravaggio, in Haltadefinzione
I tre capolavori andranno ad arricchire la selezione di opere del grande artista lombardo già presente sul sito di Haltadefinizione: oltre a Giuditta e Oloferne, anch’esso custodito a Palazzo Barberini, sono infatti presenti altri capolavori conservati alla Galleria Borghese a Roma, alla Pinacoteca di Brera e alla Galleria degli Uffizi.
Tema affrontato fin dall’antichità, il Narciso attribuito a Caravaggio, conservato a Palazzo Barberini, si distingue per l’insolito schema compositivo, con la parte inferiore speculare a quella superiore, come se il pittore l’avesse ribaltata di 180 gradi per ottenere la figura riflessa. Un’impaginazione congeniale alla storia del giovane cacciatore, che si innamora della propria immagine rispecchiata nell’acqua. La trovata del ginocchio nudo fa da centro di attrazione visiva e l’ampia manica a sbuffo accompagna lo sguardo verso la mano immersa nell’acqua nel tentativo di abbracciare quella forma ingannevole dell’immagine di sé, come narrato nel III libro delle Metamorfosi di Ovidio.
L’opera, per molto tempo attribuita a Caravaggio, è oggi al centro di un acceso dibattito tra chi vede la mano del Merisi e chi, invece, la ritiene opera del pittore caravaggesco Giovan Antonio Galli, detto lo Spadarino.
Autografia dubbia anche per il San Giovanni Battista, tema sul quale Caravaggio realizzò diverse versioni. In questa, vediamo un giovane Giovanni senza barba, seminudo e coperto dal mantello rosso, con il bastone a croce poggiato al suo fianco e privo della tradizionale pelliccia di cammello. L’artista ha raffigurato un momento di riposo durante la vita di penitenza di Giovanni nel deserto, rispetto all’iconografia tradizionale, però, gli attribuiti del santo sono quasi marginalizzati: la ciotola con cui Giovanni versò l’acqua nel battesimo di Gesù è come privata del suo ruolo sacrale, mentre la croce è appena visibile, nascosta dal bordo del dipinto.
In questo modo, Caravaggio, come da suo stile, attualizzò la rappresentazione del giovane Battista nel deserto, conferendo maggiore immediatezza a un tema che si era più volte prestato a interpretazioni in cui si mescolano sacro e profano.
Altrettanto intensa la rappresentazione di San Francesco che, circondato da uno scenario tenebroso e arido, stringe tra le mani un teschio. Ogni dettaglio reca il marchio dell’umiltà e della penitenza, come il saio strappato sulla spalla, il tronco spezzato e la croce di legno grezzo, chiaro rimando alla passione di Cristo.
La tela è stata rinvenuta nel 1968 nella chiesa di San Pietro a Carpineto Romano e nel 2000 è stata oggetto di un importante restauro, condotto contemporaneamente a quello di un’altra versione del dipinto, quasi identica, conservata nella chiesa di Santa Maria della Concezione, in via Veneto a Roma. Le indagini hanno confermato l’autografia per la tela Barberini e la sua precedenza cronologica, a giudicare dai numerosi pentimenti, tipici non di una copia, ma di una prima redazione.
Secondo alcuni studiosi, la data di esecuzione si collocherebbe intorno al 1606, quando Caravaggio, in fuga da Roma dopo l’assassinio di Ranuccio Tommasoni, si rifugia presso i feudi Colonna, vicini a quelli degli Aldobrandini, committenti dell’opera.