-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Martello, ferri, chiodi, pinze. Molto è ancora imballato, ancora in progress, uno splendido aspirapolvere placcato è poggiato a una delle basi delle colonne cinquecentesche. L’artista è in un angolo a parlare con i suoi collaboratori. È uno strano effetto memoria, sembra di sentire l’acquaragia e l’odore delle tempere, dei pennelli bagnati ma non è possibile. Qui a Made in Cloister, alla mostra di “(H)ear” di Sergio Fermariello pennelli e tele fresche non ce ne sono. Ma l’energia è la stessa dell’atelier vivo, in movimento. Si intravede una cassetta degli attrezzi e un piano di lavoro con dei piegaferro per formare del filo di ottone. Una specie di tabernacolo per la complessa e poetica opera di transustanziazione da lega metallica a stele di grano.
Infatti, un campo intero ne occupa il centro del chiostro. Solo che al posto dell’infiorescenza, vi è una distesa di orecchie che ondeggiano come spighe al vento. “Vorrei portare questa installazione a Arles”, confida l’artista napoletano. E quelle orecchie non possono dunque che appartenere al “pittore pazzo”.
Ma il sole che attraversa la lanterna borbonica non è quello della cittadina provenzale. È un sole più caldo, che si riflette sul tappeto dei 6mila steli che non danzano sotto i venti del Nord e che sembrano riflettere la pietra parietale di un tono fulgente. Come per il “pittore pazzo”, anche queste “frustate di giallo” sanno di ambiguità, di doppiezza di senso, una calma apparente e tagliente che invita e incute timore allo stesso tempo.
E quando, dopo interminabili minuti, gli occhi riescono con grande fatica a sganciarsi da questa forma compatta e assoluta, è allora che ci si accorge che sono lì, appostati sopra le mura cinquecentesche, ad attenderci come per una manovra a tenaglia. Ora pittogrammi che si mimetizzano tra le texture della tela e le scorie nere del piperno, ora in forma pastosa e smagliante, alla ricerca di un’accelerazione quasi futurista, che si infrange nello spettro cromatico di tutte le rischiosità antropiche. E in cui, fatalmente, ricorre quel contrasto tra il tono della fertilità e della vita e il cobalto della Notte che giunge implacabile (secondi alcuni, gli “ultimi colori” del pittore neerlandese).
Se “la risposta va cercata nella domanda”, allora Sergio Fermariello ci pone da sempre un maledetto rebus. Come far germogliare “semenza di bellezza” in un giardino karesansui senza sassi da allineare, dove i segni hanno perduto il loro fonema e i solchi vengono privati di ogni direzione? O come raccontare quelle migliaia di lance e di scudi silenti e dimenticati da qualunque epos e da tutte le chanson?
“La vita di un artista è la vita del santo”
Succede qualcosa tra queste mura di Santa Caterina a Formiello. Succede sempre. Ancora una volta, il chiostro sfugge al ruolo di quinta e carica invece di tensione, di urgenza, il lavoro del manufattore, ergendosi a soggetto e voce narrante. Come l’affresco sfigurato di Santa Caterina che riceve le stimmate dal Signore attraverso raggi color sangue, accogliente trompe-l’œil alla sineddoche del grano, sacrale e sanguinante al tempo stesso ma, soprattutto, in grado di sterrare strati e strati di senso. Come per la pasta di marmo, che sembra volutamente perdere la tipica processione geometrica della mano dell’ artista, alla ricerca di una trama sconosciuta, di spazi ad alta infedeltà del tratto.
Tagliare, incidere, segnare, diventano così intervalli di un’unica prassi sensuale e sperimentale. Su di un corpo, una tela, una coltura, tra bordo e sbavatura, codice e refuso, psicosi e rinascita. E così, in questo “collasso eucaristico” del pane che si spezza e delle carni che si incidono, questo chiostro, luogo di macinazione, di cammino, di pensieri e di preghiera, ci dona un collasso visivo inaspettato. Dei guerrieri che, finalmente in pace, attraversano un campo dorato, protetti dalla luce del giorno e dallo sguardo amorevole dell’artista, loro dio ricongiunto.