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Perché le recenti osservazioni, conversazioni e disquisizioni altro non sono che un “copia-e-incolla” delle precedenti osservazioni, conversazioni e disquisizioni, con l’aggiunta dell’argomento COVID e chiusure. Ma la “chiusura” dei teatri ha sollevato tante proteste quanto ne abbia sollevate la proposta di riapertura. Quelle proteste, che portarono l’associazione ATIP a scrivere una lettera al Ministro Franceschini, e che, beninteso, erano legittime e motivate, erano e continuano ad essere pur sempre il riflesso di un settore che è evidentemente in crisi. Le ragioni della crisi sono varie, e di molte di esse già ampiamente si è dibattuto: mancanza di formazione del pubblico, ridotta capacità di innovazione, approccio ambiguo da parte del ministero, ridotta capacità imprenditoriale e così via.
A queste condizioni ormai endemiche e pre-pandemiche, se ne aggiunge un’altra, che è certamente diretta conseguenza delle precedenti, ma che in questo periodo di chiusura generalizzata dei teatri ha inferto al teatro un colpo importante: un modello di business che “limita” le potenzialità del mezzo espressivo. Proseguiamo con ordine: una recente mappa ha “collezionato” le differenti attività teatrali che sono state poste in essere a partire dall’emergenza Covid nel nostro Paese, elencando iniziative senz’altro meritorie, ma è anche vero, per citare l’autore Oliviero Ponte di Pino, che “in questi mesi, sono stati pochi i formati (e gli spettacoli) davvero innovativi.”
Condizione che, a prima vista, può sembrare paradossale, perché è quasi impensabile che un settore come il teatro non abbia colto l’opportunità di reinventarsi, ma che, come pare di capire, si sia semplicemente limitato a “tradursi”: teatro nei cortili, teatro in streaming, teatro in TV. Eppure, per quanto possa apparire contro intuitiva, questa condizione è tutt’altro che illogica se si allarga l’orizzonte della riflessione non solo alle dimensioni culturali, ma anche a quelle organizzative economiche del teatro.
Il settore, infatti, quando non “pubblico”, presenta un modello di business molto semplice. Secondo una fredda logica organizzativa, infatti, il settore si caratterizza per la presenza di un insieme di produttori che si avvalgono di professionisti e che, per raggiungere il “cliente” finale, si avvalgono di una rete distributiva più o meno distribuita sul territorio. Un po’ come il “commercio” Proprio come nel “commercio”, dunque, alla base di tutto c’è “il cliente”: se il cliente non “compra”, i commercianti vanno in “difficoltà”. E se il commerciante non “acquista”, tale condizione finisce inevitabilmente con il riverberarsi sulle aziende produttrici. Ancora, proprio come nel commercio, i produttori, che operano in una logica B2B, non hanno la struttura, la capacità e nemmeno l’intenzione di rivolgersi direttamente al cliente finale, perché quello è il ruolo del commerciante, che deve quindi occuparsi di acquistare il prodotto migliore per la propria clientela.
Nel caso del “teatro”, sono i “teatri” a comprare gli spettacoli per poi “rivenderli” al proprio pubblico, spesso affezionato, spesso abbonato, limiti anagrafici permettendo. E i “teatri”, è ovvio ma doveroso ribadirlo, guadagnano se le persone “vanno a teatro” .A fronte di queste considerazioni, dunque, il nesso tra “rigidità del modello di business” e “evoluzione culturale” nel settore teatrale: quale commerciante “finanzierebbe” attività che potrebbero incrementare la concorrenza? Meglio detto, quale gestore teatrale acquisterebbe spettacoli che potrebbero stimolare la nascita di format innovativi attraverso i quali avviare un processo di “disintermediazione”?
Perché, attenzione, è pur vero che “il teatro” non è digitale e che “Il teatro non può sopravvivere senza il proprio pubblico reale”, ma con gli ologrammi alle porte, quest’affermazione non è più così solida come vogliamo tutti credere. Nella nostra storia recente, non sono stati rari i casi di settori, più o meno in difficoltà che hanno poi conosciuto momenti di forte crescita grazie all’applicazione della disintermediazione resa possibile dal digitale. In ognuno di quei settori ci pareva impossibile che ciò avvenisse: l’importanza del “libraio” di fiducia è stata schiacciata da Amazon, l’affidabilità e la sicurezza dell’Agenzia di Viaggio è diventata all’improvviso troppo costosa per la maggior parte dei turisti, il “cd” come prodotto fisico è divenuto un lusso da collezionisti.
Siamo ancora così sicuri che la fisicità del teatro sia davvero così “intoccabile” tra dieci anni, quando il pubblico sarà principalmente composto da una generazione cresciuta a smartphone e social network?