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L’oggetto e la propria identità rivelano un rapporto ambiguo tra il definito e il mutevole. La sostanza materiale del definibile trasborda nella concretizzazione della sua forma, ne governa lo stato perimetrale e circoscrive la sua utilità o inutilità, elaborandone di volta in volta le ragioni di essere e di esistere. Queste sono determinate dalla sua funzione, dal suo esercizio, dalla programmazione della sua essenza. Un ulteriore fattore, che è condizione necessaria alla sua affermazione, alla sua presenza, è legato inevitabilmente al riconoscimento esterno del suo uso, del suo consumo, della sua conformazione. Elemento vitale per una condizione di sussistenza materiale sia nella propria usabilità che nella condizione di non usabilità, intesa come esistenza materiale inutile ma effettiva, reale: appartenente a ciò che esiste ma non ha nessuno scopo se non quello di esserci.
Tale comportamento conservativo è legato alla condizione esistenziale e basilare del suo requisito di essere, quale stato di prodotto funzionale che non ha rapporti con la soggettività di chi ne vive la sua presenza. In un certo senso l’oggetto subisce le regole del prodotto in un livello materialistico, generico e indistinto. Non ha valenza particolare, non risponde a caratteristiche uniche che gli conferiscono eccezionalità. Probabilmente questo livello percettivo, che è considerato dall’altro esternamente al suo perimetro, è valutabile anche negli oggetti naturali, viventi e non, con cui il differente ne entra in contatto. Il percepito dipende in ogni caso da ciò che è intrinseco all’alterità e dalla valutazione che questa ne fa: sia essa di ordine pratico, sia essa di ordine intellettuale.
E l’esperienza di Constantin Thun, nell’utilizzo dell’oggetto nella costruzione della mostra presso la Galleria Fonti di Napoli, può essere legata a questa sorta di ragionamento. L’utilizzo della lampada esterna, come fonte luminosa e iniziatica del processo rappresentativo della sua idea, va al di là della sua funzione originaria e produttiva di merce utile per generare luce in un corridoio esterno di un palazzo berlinese. La qualità radiale della sua energia diviene aureolare propagazione dell’esperienza personale di chi ne utilizza la sua caratteristica soggettiva, non più oggetto comune ma soggetto illuminante di una visione estetica che è preparatoria all’ingresso nel mondo del sensibile.
A tale riferimento, infatti, si sostanzia l’utilizzo dei teloni a bande rosse che l’artista, impossessatone a Venezia, li esibisce in quella personale prospettiva derivante dall’elaborazione personale dell’opera di Daniel Buren. L’oggetto nella sua evoluzione soggettiva viene strappato al suo uso comune, di copertura delle croste di umido su di un muro in una calle, perché suscita il riferimento sensoriale di una conoscenza diretta e formante che l’altro, in questo caso l’artista, ha percepito in ciò che diversi altri osservano solo come telone coprente.
Come nelle relazioni di ambiguità e duplice affermazione dell’essere a cui fa riferimento l’albero di Ginkgo, che è posto esternamente sul balcone della galleria che affaccia su via Chiaia, a cui Goethe dedica dei versi che ne esaltano la doppia valenza in un unico oggetto: «…È un essere unico diviso al suo interno?/O sono due che hanno scelto di unirsi/così da sembrare uno?/Cercando la risposta/ho trovato un sentore di verità/Non senti nei miei canti/che io sono uno eppure doppio?».