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Hybrida Tales by Untitled Association #33: intervista a Saverio Verini, curatore
Arte contemporanea
di redazione
Hybrĭda Tales è la rubrica di approfondimento nata da Hybrĭda, il nuovo progetto con cui Untitled Association ha individuato oltre 200 tra spazi indipendenti, artist-run spaces, associazioni culturali e luoghi informali che stanno contribuendo significativamente ad ampliare gli sguardi sul Contemporaneo in Italia oggi.
Con un sistema di interviste a schema fisso, Hybrĭda Tales restituirà una panoramica delle realtà indicizzate, siano esse emergenti o ormai consolidate, e coinvolgerà artisti, operatori culturali, curatori, giornalisti, collezionisti, galleristi per dare vita a un archivio condiviso e collettaneo di riflessioni aperte sulle prospettive, attuali e future, del Contemporaneo.
Per questa nuova tappa abbiamo raggiunto Saverio Verini, classe 1985, curatore di progetti espositivi, festival, cicli di incontri legati all’arte e alla cultura contemporanea. Qui trovate tutte le puntate già pubblicate.
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Hybrida Tales: la parola a Saverio Verini
Cos’è per te l’arte? Qual è il tuo ruolo nel mondo dell’arte contemporanea?
«Parto dalla seconda domanda, più veloce: sono un curatore d’arte contemporanea. In merito alla prima: difficile dare una definizione di arte! Pensatori, artisti e critici dibattono da secoli sulla questione. Mi mette in difficoltà articolare una risposta, ma – messo alle strette – forse direi che l’arte è qualcosa che ha a che fare col tentativo di dare forma a un pensiero (una visione, uno stato d’animo, una condizione esistenziale…), strutturato o momentaneo che sia. Quando questo pensiero prende una forma che, almeno personalmente, trovo degna di nota, allora significa che sono di fronte a un’opera. Nei casi migliori capita che quest’opera possa influenzare il modo in cui guardo le cose; di solito me ne accorgo quasi per caso, senza preavviso e a distanza di tempo, anche semplicemente passeggiando per strada o mentre penso a tutt’altro, quando l’immagine di quell’opera mi torna in mente».
In quale direzione vorresti che l’arte contemporanea si muovesse?
«Mi piace che si muova in direzioni diverse, come avviene ormai da decenni e, forse, da sempre. Ci sono cose che, tendenzialmente, mi attraggono più di altre; ma è bello che ci sia spazio per tutto, anche per forme espressive o linee concettuali che posso sentire distanti in prima battuta, ma che magari possono rivelarsi stimolanti e farmi scoprire delle cose. L’importante è che questo spazio d’azione e le scelte degli artisti (lo dico in modo banale: dai “temi” da trattare agli strumenti da utilizzare) rimangano liberi, garantendo autonomia al di là di conformismi e approcci cronachistici».
L’arte contemporanea ha un valore narrativo per te, ossia serve a raccontare?
«Credo che l’arte (non solo quella contemporanea) sia sempre il racconto di qualcosa. Ovviamente, meno questo racconto è didascalico, meglio è. Dirò di più: credo anche che il “discorso” che ruota attorno all’arte (giudizi, commenti, riflessioni, a qualsiasi livello) sia una parte decisiva e nutriente, che contribuisce ad attivare e vivificare un’opera».
Qual è la funzione dell’arte contemporanea oggi?
«Non so, parlare di funzione mi sembra riduttivo. Forse può “servire” a riconoscersi in un pensiero e uno sguardo altrui e, in definitiva, a sentirsi meno soli? Intendo proprio quando si osserva un’opera e si ha l’impressione di sentire le stesse cose dell’artista o, almeno, di capire una parte di ciò che intende dire… Potrà suonare patetico, ma trovo commovente quando accade».
Quali pensi siano i difetti principali nella comunicazione dell’arte?
Quali aspetti che ripenseresti all’interno della comunicazione legata all’arte contemporanea?
«Le frasi fatte, i cliché, il tono da salvatori del mondo. In generale, una certa autoreferenzialità: ma non mi riferisco tanto alle opere realizzate, quanto al linguaggio adottato da chi si occupa di arte (e non me ne sento escluso), insieme a quella scala di valori che, a volte, porta gli operatori (artisti, critici, curatori, galleristi, collezionisti…) a dar peso soltanto a ciò che accade in quell’orticello a cui di tanto in tanto somiglia il sistema dell’arte».
Come credi sia possibile avvicinare un pubblico nuovo all’arte?
«La mediazione è decisiva: e in questo credo che curatori, critici, uffici stampa, chi si occupa di didattica, giornalisti e via dicendo abbiano un ruolo fondamentale. Poi c’è da dire che l’arte non deve essere obbligatoriamente “per tutti”. Niente è “per tutti”: non lo è il calcio, non lo è la botanica, non lo è la cucina. Suonerà snob, ma ne sono abbastanza convinto. L’accesso e la possibilità di avvicinarsi all’arte, quelle sì, devono essere aperti e orizzontali; ma poi non dobbiamo sentirci obbligati ad apprezzare qualsiasi manifestazione artistica, così come l’arte non deve piacere a tutti i costi, inseguendo un non meglio precisato “gusto dominante”».
Trovi che il concetto di ibridazione sia importante nell’ambito dell’arte?
«Sì, lo è. Ibridazione, metamorfosi, incontro tra mondi diversi: credo che l’arte abbia sempre agito su questo fronte, sia a livello rappresentativo (penso a un’opera su tutte: Apollo e Dafne di Bernini) sia come contaminazione tra linguaggi, generi, ambiti».
Che responsabilità abbiamo del nostro ruolo, e delle nostre azioni, all’interno del circuito di scambio e di relazioni attivato dal sistema dell’arte contemporaneo?
Senti di averne?
Quale?
«Credo che sarebbe davvero importante – ognuno nel proprio ruolo – cercare di fare bene le cose, in maniera accurata. Per un curatore, per esempio: cercare di scrivere un buon testo (che favorisca, senza imporle, possibili letture sulla pratica di un artista); provare a elaborare un “racconto” altrettanto onesto e chiaro dell’opera (o della mostra…) quando capita di accompagnare dei visitatori; frequentare gli studi degli artisti; guardare con curiosità e apertura al lavoro dei colleghi; promuovere e sostenere artisti al di là di convenienze e strategie, seguendo rapporti consolidati, ma anche curiosità epidermiche, da cui possono nascere incontri e collaborazioni. Ecco, questo credo possa rientrare nel concetto di “responsabilità”; da parte mia ci provo, sicuramente non sempre con esiti felici».
Cosa significa fare ricerca oggi? Esiste uno spazio, una realtà, una associazione, che si occupa di ricerca e che vorresti raccontarci?
«Per quanto mi riguarda, corrisponde ad avere uno sguardo mobile, attento all’oggi e capace di adattarsi ai contesti, cercando di non scivolare nella didascalia o nella cronaca. Ci sono tante realtà a cui guardo con grande curiosità. Le prime che mi vengono in mente: Gelateria Sogni di Ghiaccio, a Bologna; Castro, a Roma; e, ancora, “collettivi” che hanno un’impronta artistica e insieme curatoriale, come Treti Galaxie e Bagni d’Aria».
La biografia
Saverio Verini (1985) è un curatore indipendente. Laureato in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università La Sapienza e con un Master presso la Luiss Business School di Roma, dal 2017 si occupa del coordinamento mostre della Fondazione Memmo di Roma, dopo esperienze presso il MACRO e la Fondazione Ermanno Casoli. Ha all’attivo collaborazioni con istituzioni culturali quali: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, American Academy in Rome, FOTOGRAFIA – Festival Internazionale di Roma, Fondazione Pastificio Cerere, Fondazione smART – polo per l’arte, Istituto Italiano di Cultura a Parigi e galleria Monitor per la rassegna Straperetana.