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L’antico come motore del presente: Mustafa Sabbagh alla Galleria Estense
Arte contemporanea
La Galleria Estense di Modena e il Palazzo Ducale di Sassuolo dal 17 settembre sino al prossimo 30 gennaio 2022 opsitano il progetto “Spazio Disponibile – areare il pensiero prima di soggiornarvi“, di Mustafa Sabbagh. Il progetto è a cura di Federico Fischetti, responsabile della collezione del Seicento e del Settecento delle Gallerie Estensi, e di Fabiola Triolo, curatrice e critica d’arte.
L’ntervento di Mustafa Sabbagh nasce come reazione a una delle fasi più buie mai vissute dal settore dei musei e della cultura: l’epidemia da Covid-19. Motivo ispiratore è il ruolo attivo del patrimonio artistico antico, nel nostro presente. Una relazione fatta di corsi e ricorsi storici, che Sabbagh interpreta magistralmente ed emotivamente, come solo i maestri sanno fare: attraverso fotografia, videoarte ed installazione, l’artista ci immerge negli ambienti e nelle collezioni estensi. Se davvero la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente, l’opera di Sabbagh ci chiama contemporaneamente al raccoglimento e all’azione, invitandoci a indagare e a preservare il nostro comune patrimonio antico.
In questa intervista, Sabbagh, Fischetti e Triolo dialogano per raccontarci il progetto.
Nel Palazzo Ducale di Sassuolo, i tre interventi sono ubicati nel Cortile d’Onore, nell’Appartamento Stuccato e nella Camera dell’Amore, riproponendo frammenti di opere d’arte e pitture murali già presenti nella Reggia Estense e risemantizzati attraverso la tua profonda e poliedrica ricerca fotografica e videografica, che comprende anche installazioni. Gli interventi si offrono al visitatore come medicinali da assumere secondo una specifica posologia, descritta in un apposito bugiardino. Come nasce questa idea?
Mustafa Sabbagh «Osservando lo stato dell’arte e della cultura ho la sensazione che stiamo vivendo una patologia non tanto rara quanto pericolosa, secondo la quale l’arte deve essere solo generatrice di moneta, di guadagno. Che la cultura sia una specie di peste da essere evitata. Le mie opere al Palazzo Ducale nascono come forma di condanna a questo stato di morbilità. Non cerco la cura, piuttosto metto in atto una diagnosi e fornisco consigli per l’uso anche sotto forma di un bugiardino, scritto con il linguaggio medico, che contiene una terapia potente e universalmente valida: quella di indurci a riflettere».
A Modena, per riflettere sul valore estetico autonomo delle opere d’arte, viene rifiutata la passiva semplificazione delle formule di consumo che riconducono tutto a logo, a brand. I tre interventi si articolano in tre sale del museo attraverso i linguaggi della fotografia, del video-mapping, della scultura e dell’installazione, prendendo le mosse da alcuni dipinti della collezione. Quali sono le opere che ti hanno maggiormente emozionato?
MS «Le opere che dimorano negli spazi delle Gallerie Estensi sono dei capolavori assoluti dell’arte classica; è molto arduo scegliere, ma ti confesso che ho un debole per il Sant’Antonio da Padova di Cosmè Tura. Ad ogni modo, come scrive Fabiola Triolo nel testo che fa da interludio al mio intervento artistico, “Spazio Disponibile – aerare il pensiero prima di soggiornarvi” è un percorso complesso e stratificato, e in quanto tale, come tutti i prodotti di una certa densità, richiede un consumo lento e consapevole».
Quale è il fil rouge che lega le installazioni?
MS «L’incoerenza, ma solo apparente; non come mancanza di connessione logica o concettuale, ma come deliberato atto di non assecondare un’uniformità visiva, bensì eterogenea e diversificata. Scegliere un atto incoerente come lo è l’uomo contemporaneo, rilevare i nostri comportamenti mai in linea con i nostri ideali, sottolineare la condotta piena di sconnessioni dell’uomo moderno. Siamo già passati della società dei consumatori a quella dei consumati».
Il passato e il presente come possono dialogare fra loro?
MS «Gli storici sono costretti, dai dati e dai documenti, a essere più sobri e concreti di noi artisti, a noi interessa cogliere il lato ambiguo della storia. Nell’arte non può valere il concetto di temporalità lineare. Come ogni ricerca artistica che indaga la storia, ci si mette di fronte a dialoghi spesso interrotti. L’arte non è soggetta al tempo, ma alla contingenza. I turbamenti di Caravaggio, al di là del tempo, potrebbero essere identici a quelli di Pier Paolo Pasolini o di Derek Jarman. Per un vero artista l’arte non può essere passato vs. presente, ma sempre atto in divenire».
Sulla tua pagina Facebook, durante l’ultimo lockdown, abbiamo letto splendide riflessioni da artista “recluso” al tempo del Coronavirus. Quanto questa esperienza ha influito sulla realizzazione della mostra?
MS «Credo che abbia inciso molto. Sono tuttora molto turbato da come questa profonda esperienza stia venendo rimossa. Leggo termini usati con leggerezza, come “riprendere”, e mi domando: ma riprendere da quale punto? E da quando? Si agisce incoscientemente come se questo momento non fosse stato vissuto; ha quasi del sacrilego. Io non ho mai interrotto per riprendere, e tutto questo mi è servito proprio per capire definitivamente che la cultura, come l’arte, non può e non deve essere trattata come un prodotto di consumo, ma come una cura per una società alla ricerca della sua salvezza. Da parte mia continuerò a demolire certezze, a coltivare dubbi, e a metterci la faccia».
Alle Gallerie Estensi, tra Modena e Sassuolo, la proposta espositiva di Mustafa Sabbagh rilancia il rapporto tra arte e società in reazione al periodo buio e di chiusura vissuto dai musei. Quanto è importante per le istituzioni museali di arte antica dialogare con il contemporaneo?
Federico Fischetti «È importantissimo, anche se non scontato, e se ne potrebbe parlare a lungo. Qui mi limito a toccare un paio di temi. Il dialogo è un concetto-chiave di qualunque museo, dove oltre che alla conservazione si lavora per la mediazione tra il mondo necessariamente specialistico degli addetti ai lavori, e la società. Un compito che il più delle volte noi storici dell’arte impostiamo con approccio filologico, cercando di aiutare i visitatori a contestualizzare le opere antiche, a distinguere le une dalle altre, e a spiegare le ragioni della loro importanza e qualità. Lo facciamo con i testi e i cartellini di sala, con la didattica, con la divulgazione, con i tanti mezzi informatici.
È un approccio che, se ben condotto, produce grandi risultati, ma che si scontra anche con un limite insormontabile: sfuggendo a ogni spiegazione possibile, un’opera d’arte tocca alcune corde della nostra sensibilità tali da lasciarci ammaliati, sedotti e pieni di interrogativi. Si entra in un territorio astratto fatto di musicalità, armonia, ritmo, più che di concetti verbali, e l’attuale linguaggio della comunicazione scientifica a quel punto si deve fermare.
In Italia abbiamo una meravigliosa tradizione di interpreti letterari capaci di restituire a parole qualcosa del mistero di quella bellezza, dai grandi scrittori d’arte del Rinascimento fino a Roberto Longhi, tanto per dirla in breve. Oggi però insistere con quel modo di fare storia dell’arte suonerebbe anacronistico e un po’ parodistico. Ecco quindi l’esigenza di trovare altre forme di dialogo che possano affiancare la via maestra dell’approccio scientifico e sollecitare in modo diverso l’attenzione di noi tutti sul patrimonio antico. Muovendo da questa premessa, si capisce quanto sia stimolante che un artista contemporaneo lavori con un museo d’arte antica facendo germogliare, dal suo interno, opere originali prodotte con i mezzi espressivi attuali.
È l’incursione di una lingua artistica viva in un contesto dove le lingue morte non sono il greco o il latino, ma i canoni dell’arte figurativa del passato, con il suo repertorio semantico e iconografico. Dunque curare l’intervento di un artista contemporaneo non significa prendersi una pausa dal lavoro storico-artistico, ma al contrario intensificarlo, aggiungendovi ulteriori piste di indagine.
Aggiungo un’altra riflessione. Per opinione largamente condivisa fra gli addetti ai lavori, negli ultimi decenni i musei sono stati interessati da una proliferazione abnorme di mostre temporanee di arte antica, con ripercussioni sull’integrità di un patrimonio fragilissimo, e alti costi, anche economici (quando un museo presta un solo dipinto, dietro ci sono ore e ore di lavoro tecnico e amministrativo dello staff). Collocherei i progetti condivisi con artisti contemporanei fra le possibili e virtuose soluzioni per rallentare il consumo bulimico di mostre d’arte antica, pur mantenendo pienamente attivo il ciclo vitale di un museo anche negli aspetti legati agli eventi temporanei. Alle Gallerie Estensi, riflettendo proprio durante un periodo anomalo e drammatico come quello dei lockdown, abbiamo deciso di intraprendere strutturalmente questo percorso».
Il vostro progetto è articolato nelle due sedi di Palazzo Ducale di Sassuolo e delle Gallerie Estensi di Modena, quale ne è stata la genesi?
FF «Si è trattato di una scelta prettamente artistica, nel senso che fin da subito Sabbagh ha espresso l’intenzione di articolare in più sedi il suo intervento per esprimersi su registri diversi con libera incoerenza. Nei primi incontri esplorativi, per dire, era stato anche ventilato un coinvolgimento della Biblioteca Estense Universitaria, e sarebbe stato magnifico misurarsi anche con il patrimonio librario antico (senz’altro un appuntamento rimandato al prossimo futuro).
Poi, per varie ragioni, il progetto si è assestato su due sedi: la Galleria Estense, quale pura collezione d’arte sospesa in un ambente museografico moderno e funzionale, e il Palazzo Ducale di Sassuolo, monumento di architettura e arte barocca, dalla lunga storia di vita e utilizzo, e che ha un esterno, un rapporto con lo spazio naturale e gli eventi atmosferici. Proprio quest’ultimo aspetto ha guidato l’idea di una delle tre installazioni, dal titolo Spazio Disponibile: vietato non toccare, che è stata vittima sacrificale dei forti temporali di fine estate, e come in una metamorfosi, oggi ha assunto un’identità nuova attraverso la musealizzazione conservativa dei frammenti superstiti, secondo principî mutuati dal mondo dell’arte antica».
È stato scientificamente provato che la cultura agisce come un farmaco, attivando specifici neuroni della corteccia orbitofrontale. Una volta attivato, questo centro cerebrale della bellezza produce molecole-segnale come endorfina, dopamina ed ossitocina. È possibile, secondo te, curare e risollevare il mondo, in questi tempi cosi bui, con l’arte?
Fabiola Triolo «Mi chiedi se è possibile: non so se lo sia, perché la possibilità si lega sempre alle miserie dell’attualità, ma in via potenziale credo sinceramente che non solo lo sia, ma che sia più che mai necessario e urgente. Le parole hanno sempre un peso: non è un caso se Mustafa parla di intervento, e non di mostra o di esposizione. E non è un caso se nell’arte contemporanea è stato battezzato come cruciale il momento della cura – della cura, e non di una curatela svuotata della sua radice, che ultimamente si affanna solo a cercare una didascalia quanto più politically correct possibile, ad apporre una giustificazione a qualcosa che per natura non dovrebbe mai e poi mai giustificarsi, al solo fine di lubrificare l’osanna massmediatico. La cura non è questo, la cura è attenzione all’altro. E la cultura non è l’ora della ricreazione, ma è quella leva che ti permette di capire che la crisi – krísis, decisione – non è altro che una soglia da superare attraverso un reset di paradigmi ormai logori.
Di fatto siamo in crisi, come è sempre ciclicamente accaduto nella storia dell’umanità, dal crollo del Sacro Romano Impero al crollo del Terzo Reich, passando per crolli dei mercati e crolli della popolazione causa epidemie. Di fatto, nella contemporaneità, il paradigma da superare è l’antropocentrismo, che sta devastando la vita e il pianeta. In una fase di passaggio epocale come quella che stiamo attraversando, l’arte e la cultura sono le uniche armi di massa capaci di tratteggiare l’alternativa, la ricerca poetica e potente di un Terzo Paesaggio, come quello descritto da Gilles Clément. E l’arte è la cura quando è esperienza pienamente estetica e non anestetica; e la cura è nella terapia d’urto, nella capacità traumatica di sollevare dubbi e domande, di innescare cortocircuiti.
Credo sinceramente che, in un momento egotrofico e misero come quello attuale, l’arte e la cultura, come sviluppo di piena capacità critica e nutrimento di feconda capacità immaginifica, siano davvero, e ben al di là del dilagare dei placebo e dei farmaci da banco, non solo la cura ma anche l’ultima, e la più grande, linea di difesa dell’umanità».