-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Addio a Jimmie Durham: muore l’artista cherokee che liberò la scultura con leggerezza
Personaggi
di redazione
Considerato tra gli scultori più influenti e innovativi nella storia dell’arte contemporanea ma anche scrittore, saggista, poeta, performer e attivista, Jimmie Durham è morto oggi, a 81 anni. Compagno dell’artista brasiliana Maria Thereza Alves e da molti anni in pianta stabile a Napoli, in una splendida casa-studio ricavata nell’archeologia industriale dell’Ex Lanificio Borbonico, Durham da tempo era sofferente ma ha lavorato con intensità e passione fino alle ultime settimane, quando la situazione si è aggravata in maniera irreversibile. Impegnato nei movimenti per i diritti civili degli afroamericani e dei nativi americani negli anni ’60 e ’70, nel 2017 aveva vinto il Premio Robert Rauschenberg, mentre nel 2019 era stato insignito del Leone d’Oro alla Carriera in occasione della 58ma Biennale d’Arte Contemporanea di Venezia.
Vita e opere di Jimmie Durham, tra lotte per i diritti civili, poesie e sculture
Registrato all’anagrafe il 10 luglio 1940, a Houston, in Texas, Jimmie Durham ha affermato di essere nato nella contea di Nevada, in Arkansas. È effettivamente cresciuto tra Texas, Louisiana e Oklahoma, mentre suo padre viaggiava in cerca di lavoro. Negli anni ’60 iniziò il suo percorso nel teatro, nello spettacolo e nella letteratura, principalmente nell’ambito dei movimenti per i diritti civili. Nel 1965 si trasferì ad Austin, si iscrisse all’ Università del Texas e iniziò a esporre le sue opere. La sua prima mostra personale ad Austin si tenne nello stesso anni, mentre nel 1969 si trasferì a Ginevra, in Svizzera, per studiare all’École des Beaux-Arts.
Nel 1973, Durham tornò negli Stati Uniti e fu coinvolto nell’AIM – American Indian Movement, lavorandovi fino al 1980 e assumendo la carica di membro del consiglio centrale. In questa occasione, Durham si presentava come di sangue Cherokee per un quarto. Nel 1974, partecipò alla conferenza dell’IITC -International Indian Treaty Council presso la riserva indiana di Standing Rock. In seguito divenne amministratore capo dell’IITC e lavorò affinché le Nazioni Unite concedessero all’IITC lo status di “Osservatore e consulente di organizzazioni non governative nell’ambito del Consiglio economico e sociale” ma alla fine degli anni ‘70 si dimise sia dall’IITC che dall’AIM, per disaccordi sul sostegno a Cuba e ad altri alleati sovietici.
Dopo essersi trasferito a New York, Durham concentrò la sua attenzione sull’arte visiva, realizzando sculture che hanno rivoluzionato sia la rappresentazione convenzionale dei nativi nordamericani che la storia del medium. La sua pratica si fonda sul recupero di oggetti quotidiani e di materiali naturali, assemblati in forme nuove, oniriche, suggestive eppure sempre presenti nello spazio. Questo metodo, definito dallo stesso Durham «Una combinazione illegale con oggetti rifiutati», può essere considerato un’incarnazione dell’atteggiamento sovversivo che pervade il lavoro dell’artista. La poetica della sue sculture, che si ritrova anche nelle performance e nei video, cerca di svincolare la materia, che sia nobile come pietra e marmo, oppure industriale, dal suo statuto canonico di monumentalità, stabilità e permanenza, anelando all’espressione di pura libertà.
«Avrei sempre voluto essere un artista concettuale, ma non avevo concetti», raccontava Durham in questa nostra intervista. «Fin dall’infanzia ho costruito cose perché tutta la mia famiglia lo faceva continuamente. Era povera, ma molto talentuosa. Conosco il mondo attraverso i materiali, senza sceglierne alcuno, mai. Semplicemente vivo e le cose si avvicinano. Un bellissimo pezzo di granito mi parla. Accade ogni volta. Non ho mai immaginato di creare un’opera d’arte dal mio stesso pensiero; non ho mai un piano prima della fine. Mi considero ugualmente uno scultore, è che scolpisco solo quello che appare davanti a me. La maggior parte dei materiali è troppo valida e magica. Devo sempre stare attento, ma nella mia mente il vetro rivela la sua energia solo quando è rotto».
Nel 1983, la West End Press pubblicò “Columbus Day”, un suo libro di poesie, incluse anche nella Harper’s Anthology of 20th Century Native American Poetry. Dal 1987 visse a Cuernavaca, in Messico, quindi nel 1994 il suo trasferimento in Europa, prima a Berlino, quindi in Italia, a Napoli. Nel corso della sua lunga carriera ha esposto in alcuni tra i più importanti musei e istituzioni al mondo, alla Whitney Biennial, a documenta IX di Kassel, all’Institute of Contemporary Arts di Londra, al Museo d’Arte Moderna di Anversa, al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, al Kunstverein di Amburgo e Monaco, al FRAC di Reims, alla Fondazione Serralves di Porto, al MAXXI di Roma, al MADRE di Napoli, alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, oltre che alla Biennale di Venezia e alla Biennale di Gwangju. Nel 2017 la retrospettiva “Jimmie Durham: At the Center of the World”, curata da Anne Ellegood, ha aperto all’Hammer Museum di Los Angeles e ha viaggiato al Walker Art Center di Minneapolis, al Whitney Museum of American Art di New York City e al Remai Moderno a Saskatoon.
Nel 1995 Phaidon Press ha pubblicato una rassegna completa della sua arte, con contributi di Laura Mulvey, Dirk Snauwaert e Mark Alice Durant.
«Quello cui veramente aspiro è confondere la gente. Vorrei che dopo aver visto le mie opere lo spettatore ne uscisse con un’energia maggiore e dicesse: “Oh sì, mi sento più forte!”», così diceva Jimmie Durham, nel corso di una intervista alla Fondazione VOLUME! di Roma, in occasione della mostra “Templum: il sacro, il profano e altro” a cura di Angelo Capasso.