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L’archivio di Eva Marisaldi, allo CSAC di Parma
Arte contemporanea
La mostra di Eva Marisaldi intitolata Secondi tempi allo CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, si svolge all’interno dell’Archivio, uno spazio multifunzionale dove si integrano un Archivio, un Museo e un Centro di Ricerca e Didattica, pensato “dal vivo”, come luogo di azioni e reazioni attraverso – come in questo caso – il terzo intervento di un artista. Eva infatti è stata preceduta da Massimo Bartolini e Luca Vitone.
L’artista ha deciso di accostare al ricchissimo Archivio (composto dalla strabiliante cifra di 12 milioni di materiali originali) il proprio archivio personale, costruito attraverso la lettura quotidiana attenta e curiosa dei fatti dei giornali. A questo delicato accostarsi al corpo ospitante attraverso una selezione di fotografie stampate su alluminio l’artista ha dato il nome di Secondi tempi. In realtà è anche il titolo di un disegno di Paul Klee, esposto all’interno della mostra Klee fino al Bauhaus organizzata nel 1972 da Arturo Carlo Quintavalle all’interno dell’Istituto di Storia dell’Arte che poco dopo avrebbe dato origine al CSAC. All’interno dell’Archivio Eva ha voluto concentrarsi sui materiali che si riferiscono all’Africa onde creare delle risonanze con la propria particolare predilezione per il materiale e la storia africana, anche quella ricordata dalle vicende del colonialismo italiano dall’invasione del Corno d’Africa alle ingerenze in Libia, ma poi ancora quella legata alla narrativa, ai materiali artigianali, agli usi e costumi passati e presenti africani. All’interesse per l’Africa si mescolano alcune notizie su scoperte o apparati tecnologici, sintomo di un’attenzione per le novità del mondo e di predilezione per una pratica legata alla tecnologia, sempre vista però in senso disfunzionale, comico e quasi “animistico”.
La scelta dell’argomento africano mi fa venire in mente il concetto di esotismo approfondito da Victor Segalen, profondo conoscitore della Cina, ma soprattutto l’antropologia inquieta e poetica dei Surrealisti dissidenti raccolti attorno a Documents e a Georges Bataille: L’Afrique fantôme di Michel Leiris è lì in attesa di essere letto dall’artista. Queste atmosfere vengono evocate anche in epoca recente: ricordo il film The trick brain (2012) di Ed Atkins che contamina animazione e letteratura, da Mauriche Blanchot a André Breton, costruito attorno a un film d’archivio del microcosmo personale di Breton con suoi oggetti africani e libri rari, presentato alla Biennale di Venezia del 2013. Il personale archivio di Eva rientra anche in quella Febbre d’Archivio di cui narrava Okui Enwezor nella mostra omonima del 2008. Si tratta di una delle pratiche più diffuse del Novecento, accelerate grazie alla diffusione della mole di immagini da cui siamo subissati e di cui siamo a nostra volta produttori. L’archivio insomma come paradigma contemporaneo di collezione e immagazzinamento di dati dove si mescolano ricordi personali e collettivi. Esattamente, altra risonanza, come nel Museo dell’Innocenza di Oran Pamuk a Istanbul, laddove un tempo e un’atmosfera, vengono riportati alla luce grazie a oggetti, immagini, costumi, libri e film che ricostruiscono l’immaginario collettivo della società di Istanbul degli anni Settanta.
Quello di Eva ricostruisce lo stesso l’orizzonte amplio di un immaginario, quello creato dalle nostre menti dalle pagine dei nostri giornali, dalle notizie che costituiscono il tessuto connettivo della storia e della memoria collettiva del presente, della nostra attenzione verso l’altro e verso le novità tecnologiche, due campi prediletti dall’artista. L’archivio di Eva è costituito da immagini di stampe di cui vengono restituite la grana porosa e sgranata, la sfocatura nella ricostruzione fotografica. Questo è il primo prelievo che compie l’artista dal flusso dell’immaginario mediale contemporaneo. Il secondo intervento è dato da un processo di astrazione e sintesi dell’immagine che diventa improvvisamente disegno dove l’artista sottolinea certi particolari come i tessuti ad esempio, per lasciare evanescente, invece in altre parti, il tratto pulito e netto del contorno.
L’immagine viene ricomposta in maniera unitaria, sintetica e decisa nel disegno che popola le pagine del libro d’artista che accompagna la mostra: una piccola opera d’arte quale scrigno prezioso. Ora se lo statuto odierno dell’immagine è la circolazione e la dinamica della sua transitività attraverso la quale la stessa vive nella sua trasformazione su diversi mobili supporti, come afferma in più occasioni David Joselit (Painting beside itself, 2009 e After art, 2015), l’opera di Marisaldi si iscrive pienamente in questa nuova narrazione. L’immagine muta di statuto, subisce trasformazioni attraverso il passaggio di status, viene infine purificata attraverso un’operazione di traduzione che ricorda il senso primigenio del disegno: traccia di un’immagine, linea purissima del contorno, gioco raffinato di bianco purissimo che circonda ed è compreso dalla nettezza tagliente del contorno.
La stessa operazione caratterizzava la personale “Surround” alla galleria de’ Foscherari del 2017 o, ancora più indietro, l’intervento alla Biennale di Venezia del 2001, quando le piccole sagome in gesso di figure a bassorilievo popolavano silenziose e potenti la parete del Padiglione Centrale dei giardini.
Durante il percorso si può anche vedere il video Linee (2020) costruito con Enrico Serotti, un piccolo teatrino dove le spolette dei fili da cucire roteano fino a rimanere nude, un intervallo nel percorso, giusto per inanellare un ulteriore livello nella mostra, un dialogo con l’iconica Scultura n. 25 (1935) fatta di linee di Fausto Melotti.