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Dobbiamo ammetterlo, ciascuno di noi resta impigliato a un ricordo, sia esso un oggetto, una colonna sonora, un abito da indossare. Eppure non tutto può definirsi vintage e tradursi come icona che veicola un messaggio nell’immaginario collettivo. Sabina Minardi, giornalista e responsabile delle pagine culturali de L’Espresso, nel suo saggio narrativo “Il Grande libro del Vintage” (Il Saggiatore, 2021) ricostruisce la cosiddetta “retromania”, quella voglia matta di guardare al passato che rende tutti noi dei curiosi nostalgici. Con sguardo attento e indagatore, Sabina Minardi effettua una vera e propria “retromarcia” nella contemporaneità, in un momento in cui il presente sembra essere diventato uno spazio troppo stretto in cui vivere.
Quando parliamo di vintage, ciascuno di noi pensa a una serie di oggetti legati al passato. Per usare le sue parole, un vero e proprio “inventario di ossessioni”: l’aranciata amara Sanpellegrino, la Coppa del Nonno, le Tic-Tac, la Polaroid. Ma cosa può definirsi tecnicamente “vintage” rispetto a ciò che descriviamo solo come “desueto”?
«Tecnicamente il vintage ha dei codici ben precisi. Sono sufficienti vent’anni, perché un oggetto si possa definire tale. Ma la parola vintage, al di là del suo etimo che ricordo nel libro, indica ciò che è reso pregiato dal passare del tempo. L’idea che mi piaceva sostenere e dimostrare è che “vintage” non fosse soltanto una cosa “vecchia” di vent’anni, ma qualcosa che avesse in sé elementi di qualità, innovazione, facendosi custode di storie e sentimenti nel proprio campo rappresentato: gusto, design, cinema, moda, estetica. Il vintage è una fiamma non ancora estinta da portare nel nostro futuro».
Il suo saggio mette in luce la latente seppur viva nostalgia “di una normalità di vita stravolta dalla pandemia”. Un desiderio – quello di guardare al passato – che si è amplificato soprattutto negli ultimi anni e che sui social si è accompagnato alla pubblicazione di immagini, sotto l’espressione “ti sblocco un ricordo”. Cosa ricerchiamo di più?
«Ciascuno di noi cerca il proprio “ieri” di riferimento e ricostruisce il proprio vintage attraverso pezzi di decenni passati. Un fenomeno già presente nella società e che la pandemia ha accentuato. Io stessa avevo cominciato a raccontarlo sulle pagine de L’Espresso, prima che ci trovassimo in emergenza sanitaria. Poi ho osservato i social, soprattutto Instagram e Twitter, e ho constatato l’esplosione di una vera e propria retromania. Il tempo frammentato che ci ha costretti a stare in casa da soli ha fatto sorgere un desiderio di continuità con una comunità alla quale noi tutti apparteniamo.
E cosa ci ha donato il vintage in questo tempo solitario?
«Ciascuno cerca nel vintage l’antidoto al presente che non lo convince, che non gli piace, che non lo rassicura.
C’è chi si riconosce negli anni Ottanta, chi negli anni Novanta, chi rimpiange gli anni Cinquanta o Sessanta, con tutto quello che per il nostro Paese hanno rappresentato».
Secondo Lei questo “ieri” di riferimento verso cui ciascuno di noi tende, ha che fare di più con la stagione dell’infanzia?
«Con l’infanzia, con la giovinezza, con il tempo della spensieratezza. Il mio è un saggio narrativo che mi ha consentito anche di ripescare nei personali ricordi. Più che all’infanzia, mi sono ritrovata ad attingere agli anni Novanta. Penso a Pulp Fiction, a Twin Peaks, ai film di animazione della Disney, ma anche a quell’atteggiamento di fiducia dell’uomo verso il progresso. Il grande mito del processo telematico, Internet. In quegli anni ho vissuto una vera e propria sbornia tecnologia: improvvisamente era possibile comunicare col mondo. Questo è stato il mio vintage di riferimento. Quindi sì, si tende a tornare al tempo più puro, quello sgombro da paure e incertezze che la vita metterà comunque davanti».
Il Cinema ha influenzato la nostra tendenza a inseguire un look retrò e ad assorbire atteggiamenti che sono stati tipici di icone del grande schermo. Penso alla grande eleganza di Audrey Hepburn, portata sulla Vespa da Gregory Peck in “Vacanze romane”. Cosa hanno insegnato questi grandi volti nel campo del gusto e dell’estetica?
«Ci hanno insegnato la bellezza, quella senza tempo. Ci hanno insegnato una certa identità italiana da proteggere e preservare e che all’estero ci fa identificare e essere amati. Oggi ci sono esempi di recupero importanti. Pensiamo a cosa fa Quentin Tarantino per manifestare la sua enorme passione per il vintage. Gli ultimi film esprimono questo gusto già a partire dalle locandine, dal look dei protagonisti: tutto è espressione di una passione per i revival. Anche nell’ultimo film di Paolo Sorrentino, “È stata la mano di Dio”, c’è tanta estetica retrò: un’evidente voglia di tornare a eventi della nostra amata Italia».
E i giovani, invece, quale relazione instaurano con il passato e come lo recuperano?
«Il mondo dei giovani è quello che mi ha colpito di più in questa ricerca condotta, partendo proprio da un’esperienza personale, essendo io madre di un’adolescente. I ragazzi cercano gli oggetti vintage. Penso ai vinili che avevo in soffitta e che mia figlia ha recuperato o alla Polaroid con cui lei e i suoi amici scattano foto per poi stamparle. Cosa che noi ci sogneremmo di fare, oggi. Noto anche un altro aspetto, quando accompagno i ragazzi nei mercatini: c’è il desiderio di non omologarsi nello stile. Scelgono capi e oggetti appartenenti a epoche diverse e li assemblano, li ricontestualizzano, creando uno stile del tutto unico. E poi loro nascono con una forte coscienza critica, soprattutto ecologista rispetto a noi adulti. Noi siamo i figli di “Sex and the City” e lo shopping compulsivo ci “guariva”. In loro vedo una repulsione per lo shopping sfrenato e la voglia di acquistare prodotti che abbiano una filiera di produzione chiara. I giovani, con le loro scelte, tendono a non mettere in circolo l’enorme spazzatura di cui siamo circondati».
Affondiamo, infine, nella sua personale retromania: fra cartoni animati, musica e icone televisive, a chi o cosa è affezionata?
«Pippi Calzelunghe è stato sicuramente uno di quei personaggi che ha lavorato dentro di me e continua a farlo con i bambini di oggi, insegnando la libertà, il rispetto per gli animali, il gusto per lo stupore. Per la musica, sceglierei le colonne sonore anni Ottanta della serie tv “Black Mirror”, in particolare dell’episodio San Junipero: Simple Minds, Robert Palmer, il gruppo “The Smiths”. Infine, sono legata a “Orzowei”, miniserie che raccontava la storia di un bambino che cresceva in una tribù africana. Un lavoro che, nel tempo, ho scoperto derivare dall’omonimo romanzo del grande maestro Alberto Manzi».