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2000 opere d’arte messicane a rischio espatrio: intervengono le autorità
Beni culturali
di redazione
Il rischio di perdere interi frammenti della propria eredità culturale non si è affatto estinto con la fine ufficiale dell’età del colonialismo. E se, il più delle volte, a rivendicare la proprietà e la restituzione di reperti e opere d’arte trafugati in maniera illecita o in evidenti condizioni di disparità sono gli Stati dell’Africa – oltre alla Grecia, per il caso clamoroso dei Marmi del Partenone al British Museum – questa volta la notizia proviene dal Messico. Sono infatti circa 2mila le opere realizzate nel Paese dell’America Centrale dal XVIII secolo a oggi, a rischio di finire sul mercato, dopo il loro proprietario, Citigroup – una multinazionale che peraltro ha sede a New York – ha deciso di vendere la sua sezione bancaria, Citibanamex, insieme alla collezione d’arte.
L’intervento delle istituzioni
Stiamo parlando di opere di autori autoctoni, come Frida Kahlo, Diego Rivera e José Clemente Orozco, oltre che di altre nazionalità ma stabilmente vissuti in Messico, come Leonora Carrington – alla quale peraltro si ispirerà la prossima Biennale d’Arte Contemporanea di Venezia a cura di Cecilia Alemani –, Daniel Thomas Egerton e Remedios Varo. Insomma, un corpus più che significativo per la storia dell’arte contemporanea messicana, al punto che anche lo stesso Presidente, Andrés Manuel López Obrador, ha dovuto commentare la vicenda, pur mediando tra le parti. «È un patrimonio culturale e stiamo cercando di farlo rimanere nel nostro Paese», ha spiegato AMLO, che nella sua carriera ha avuto il merito di essere riuscito a stringere i rapporti tra le istituzioni politiche e le autorità dei gruppi indigeni e nativi. Ma il Presidente non ha scongiurato una vendita: «Analizzeremo gli aspetti legali, ma non vogliamo creare problemi per la vendita o creare ostacoli, perché vogliamo dimostrare che in Messico c’è un vero stato di diritto e ci sono garanzie per gli investitori». Insomma, il classico colpo al cerchio e alla botte.
«È la più importante collezione di pittura privata del Paese, perché è stata caratterizzata dall’acquisto sempre di opere a tema messicano: il paesaggio, i costumi e altro», ha detto a El País Angélica Velázquez Guadarrama, storica dell’arte ed ex consulente della divisione culturale di Citibanamex. Di fatto, non si tratta più “solo” di arte ma anche di politica. L’orientamento di AMLO è stato chiaro in merito: da quando il presidente è entrato in carica, nel 2018, la sua amministrazione ha sempre espresso il desiderio di rimpatriare l’antico patrimonio culturale “precolombiano” disperso in tutto il mondo e, finora, quasi 6mila pezzi sono stati restituiti al Messico.
La Ministra della Cultura Alejandra Frausto Guerrero è stata infatti più esplicita: «Il patrimonio della nazione non è in vendita». La stessa Frausto Guerrero ha partecipato a quattro aste negli ultimi tre anni a New York, Parigi, Monaco e Roma, quest’ultima lo scorso settembre, interrotta con il ritiro di 17 manufatti mesoamericani, in sintonia con la politica italiana di apertura e chiarezza sui manufatti saccheggiati.
Un mercato limpido farebbe bene a tutti
In questi casi è fondamentale parlarne. Grazie al clamore generatosi intorno a questo genere di lotti, è un po’ più difficile far passare nel mercato ufficiale i reperti dalla provenienza dubbia. Per esempio, lo scorso novembre, un’asta di Christie’s sull’arte precolombiana e Taíno, una popolazione amerindia dei Caraibi, è stata accompagnata da una petizione per bloccare la vendita. Inoltre, i collezionisti francesi Manichak e Jean Aurance hanno restituito una scultura Maya che avevano pianificato di vendere in asta nell’ottobre dello scorso anno, dopo aver scoperto che era stata saccheggiata. E in fondo fa bene anche alle case d’asta, visto che una provenienza ben certificata vuol dire anche immettere nel mercato opere di alta qualità e, di conseguenza, di valore più consistente e solido, rispetto a quelle prive di documentazione.