-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Il territorio come opportunità: riflessioni a margine delle recenti vicende del Centro Pecci
Musei
Tra i fatti degli ultimi mesi che più mi hanno colpito c’è stata la vicenda del Centro Pecci di Prato. Come tutti oggi ormai sanno, lo scorso 8 ottobre, nel tardo pomeriggio, è stato diramato un sintetico comunicato stampa per annunciare un cambio al vertice del Pecci, revocando l’incarico a Cristiana Perrella e indicendo nell’immediato un bando per un nuovo direttore (poi individuato in Stefano Collicelli Cagol). La scelta del presidente dell’istituzione pratese, Lorenzo Bini Smaghi, sarebbe stata motivata dalla necessità di avere una direzione più di profilo manageriale che curatoriale e con una maggiore capacità di dialogo con il territorio. È questo secondo punto a interessare la mia odierna riflessione.
Devo ammettere che in occasione di un viaggio stampa la scorsa estate a Prato, un’attiva e brillante associazione culturale mi evidenziava proprio questa carenza di dialogo tra il Pecci e i diversi attori locali e dell’hinterland operativi nel contemporaneo. Ma allargando il discorso oltre le mura del centro toscano, ai diversi musei civici d’arte contemporanea presenti in Italia, la situazione in molti casi non sembra diversa. Anzi.
Riscontro da quando svolgo sul campo l’attività di cronista del settore culturale, quanto la scarsa connessione tra i musei civici nostrani e le loro comunità di riferimento sia un problema diffuso e annoso. Come ripete spesso un mio amico artista, alcuni direttori di musei italiani impiegano gran parte del proprio mandato in scelte artistiche sistematicamente distanti dai loro territori, verso una programmazione sbilanciata a favore dell’estero. Lo scopo non dichiarato – a suo dire – sarebbe quello di fare pubbliche relazioni internazionali più congeniali a futuri ricollocamenti.
Non so fino a che punto questo sia vero, in ogni caso la responsabilità a mio avviso è da attribuire più “a monte”, a coloro cioè che scrivono i bandi di selezione e l’identikit dei futuri selezionati, e alle commissioni di valutazione piuttosto che ai direttori poi scelti. Nel caso dei musei civici, andrebbero premiate quelle candidature e quelle proposte progettuali che non prescindono dal coinvolgimento proattivo e continuo del proprio territorio, senza scadere beninteso nel provincialismo. Anche perché, in un Paese culturalmente policentrico come il nostro, ogni territorio è uno scrigno non valorizzato di opportunità tra enti del terzo settore (associazioni, fondazioni, comitati), imprenditori collezionisti/mecenati (molto dei quali intenti a investire in cultura per restituire alle proprie comunità), artisti, gallerie private con un prezioso lavoro di ricerca.
Tutti interlocutori – oggi si preferisce definirli stakeholder – che nella maggior parte dei casi non attendono altro che di essere coinvolti per fare la loro parte. Il fatto, poi, che la prossima edizione di Manifesta, la biennale itinerante che nel 2022 farà tappa in Kosovo, avrà un approccio e un tema incentrato sullo storytelling dei luoghi e delle comunità, conferma come i territori di riferimento non rappresentino solo degli alleati strategici per l’azione culturale dei musei civici, ma anche un campo sempre interessante di approfondimento e di ricerca visuale.
Tra le tante lezioni o indicazioni che si stanno definendo all’orizzonte dell’epidemia global di Covid-19 c’è proprio quella della rivalsa della dimensione local, in ambito industriale-economico (stiamo pagando proprio in questi mesi gli effetti collaterali negativi delle delocalizzazioni incentrate in Oriente), in ambito socio-sanitario (con la rivalutazione della cosiddetta medicina territoriale) e politico (con l’emersione un po’ dovunque di liste e movimenti civici di fronte alla perdita di appeal dei partiti nazionali). Insomma, local oggi più che mai è sinonimo di opportunità. A partire proprio dall’Italia, il Paese industrialmente e culturalmente policentrico per eccellenza.