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Arte e Scienza dall’antico al contemporaneo, al Palazzo delle Esposizioni di Roma
Mostre
Febbraio è il mese della Giornata Internazionale delle Donne e Ragazze nella Scienza. Saranno anche le ultime settimane della mostra “Tre stazioni per Arte-Scienza”, il progetto che ha aperto le porte a ottobre al Palazzo delle Esposizioni di Roma – visitabile fino al 28 febbraio 2022 – che ha soffiato via questi mesi tra performance musicali, chiacchierate con Premi Nobel (Giorgio Parisi) e serate dedicate al cinema trascendentale.
Tre mostre, per un nuovo convivio
Tre mostre, dunque: “La scienza di Roma”, “Incertezza” e “Ti con zero”. Il paragone iniziale arriva da un crescendo. Al primo livello del palazzo, infatti, sono raccontati gli episodi clou della scienza nella città eterna: da Galileo Galilei ai fisici di Via Panisperna. Ma è scendendo al piano terra che ci rendiamo conto che qualcosa è cambiato. Non solo per il fatto che tante donne, ora, partecipano a questo convivio ma perché sono artiste, ingegnere o entrambe le cose. Lavorano insieme, consapevoli che l’estetico non può privarsi del pratico, o viceversa. Che altro è, il titolo della mostra, se non un’immagine che, all’improvviso, “appare” e ci chiede dunque di arrestarci, qualunque sia il nostro moto?
“Ti con zero”, per Calvino, era infatti il tempo “prima”, quello che precede qualsiasi rielaborazione cognitiva. E giustamente, artisti e ingegneri si mettono al lavoro, consapevoli di non poter smettere di guardare. Immaginando di vedere questa mostra tra cent’anni, forse lo spettatore del futuro ci ritroverà una specie di giurassico del rapporto tra arte e scienza, un brodo primordiale, che però non tradisce tutto il suo impegno. C’è Jenna Sutela, per esempio, che lavora con un microorganismo di nome Physarum polycephalum: l’artista ha costruito un labirinto e il batterio deve trovare il percorso più breve per il suo obiettivo. Da lontano, la scultura ammicca a un ricamo, qualcosa che associamo, senza pensare, a un’idea di gradevolezza; il secondo dopo, dobbiamo anche considerare che è un “bello” che arriva dalla pura applicazione della scienza. Il visitatore può acquistarne un formato pocket e ricreare, a casa, la sua mussolina 3.0.
Tega Brain è artista, ingegnere ambientale e docente di Integrated Digital Media alla New York University. Al Palazzo delle Esposizioni presenta Deep Swamp, tre piccole paludi programmate per altrettanti obiettivi: una deve vivere come se fosse nel suo ambiente naturale, l’arte vorrebbe creare un’opera d’arte, l’ultima è in cerca di attenzione. Un deep learning che guarda altrove: è la stessa illuminazione che, agli inizi dell’800, aveva avuto Ada Lovelace quando si misurò per prima con l’intelligenza artificiale. La giovane studiosa capì che l’algoritmo poteva essere imbastito di humanities o di umanità ed è stato l’inizio di una lunga storia che porta fino a Tega Brain. Artisti e tecnici stanno quindi provando, tentando di bilanciare le forze per trarne una sintesi di apparati e di visione.
Incertezze
Per capire quanto la scienza può essere “incerta”, partiamo dall’opera più antica della mostra, l’incisione “Melancholia I” (1514) di Albrecht Dürer. Il coprotagonista della scena, insieme all’angelo, è il dodecaedro sulla destra. Questo solido deriva dal cubo, forma che i matematici consideravano perfettamente intellegibile. Non a caso, sul tavolo del matematico Luca Pacioli al Museo di Capodimonte, c’è un dodecaedro in legno che è sereno, nel suo essere regolare.
Questa visione euclidea delle scienze, non è però di casa nell’incisione di Dürer: la parte, per l’artista tedesco, non è sarà mai il tutto. E quindi, anche il suo gigante solido mancherà della chiarezza rassicurante di un cubo. Ma non possiamo non notarlo, è gigante, vicino all’angelo. Allo stesso modo, funziona la libera interpretazione che di quest’opera fa Carsten Nicolai, anti, datata 2004.
La chiarezza negata, qui, è di visione: se si osserva la scultura da lontano, si perde metà dell’esperienza, perché contiene un dispositivo sonoro che si attiva solo con il tatto. Ma da vicino ci sovrasta: entriamo a tu per tu con il rumore che noi stessi attiviamo. Da un senso all’altro, incerti – ancora – se continuare a premere la mano, o allontanarci lontano.