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Intervista a Gian Maria Tosatti: come riformare la Quadriennale e conformarsi alla Biennale
Arte contemporanea
di Raja El Fani
Epica la riforma della Quadriennale di Roma presentata dal nuovo direttore artistico Gian Maria Tosatti che tra poco più di un mese svelerà la sua certa idea dell’Italia alla Biennale di Venezia. Nel suo riassetto della Quadriennale, nessuna traccia del lirismo con cui parla delle sue operazioni artistiche: studio visit quotidiani in tutta Italia, piccole mostre mensili e un festival delle Parole a Settembre in una delle sedi della Quadriennale. Non solo: anche una rivista cartacea trimestrale bilingue edita da Treccani, e attivo da ieri il sito Quaderni.online di cui Tosatti è direttore responsabile. La redazione è composta tra l’altro da Nicolas Ballario, volto del programma Sky Arte The Square, e Andrea Villiani, ex direttore del museo Madre di Napoli e ora della fusione di musei Museo delle Civiltà di Roma.
Ma rifletterà la prossima mostra Quadriennale prevista per il 2025, tutto questo lavoro preparatorio? Sceglieranno, i curatori delle future Quadriennali, qualcuno degli artisti che verranno rilevati sotto la direzione di Tosatti? Per la ristrutturazione a Porta Portese dell’Arsenale Pontificio affidata allo studio Insula servono ancora fondi. È lecito sognare una Quadriennale di Roma complementare alla massima istituzione dell’arte italiana, la Biennale di Venezia? Se riuscirà Tosatti nell’impresa di sistemizzare parte dell’industria dell’arte italiana, ci rimarrà solo il rimpianto che non abbia ardito presentare questa riforma come mero progetto artistico alla Biennale quest’anno. Sottovalutando forse il suo ruolo come artista.
Che formazione hai?
Mi sono diplomato in regia al Centro di Sperimentazione di Ricerca Teatrale a Pontedera dove lavorava Grotowski. Nel frattempo studiavo Lettere Moderne a Roma Tre. E, in contemporanea facevo il critico di teatro e di danza con una certa fortuna su alcuni quotidiani e sulle primissime riviste online. Sono stati anni di grande concentrazione di impegni. Me ne è rimasta un po’ la nostalgia. Forse, per questo continuo a giocare su più tavoli.
Forse l’unica mostra che ho visto di te alla Galleria Zoo Zone a Roma vicino al Viminale è da collegare più a questa esperienza giornalistica che alla tua formazione teatrale. Erano degli scritti critici presentati come opere.
Quella era una bella mostra di cui vado molto fiero, perché era fatta al di fuori dalle logiche di sistema in questa galleria portata avanti da Lim e Viviana e che è più attenta ad accogliere l’artista come individuo. Così, lì realizzai una mostra su una parte un po’ più segreta del mio lavoro, il mio pensiero. Il pensiero non è un’opera d’arte ma è un’attività centrale per l’artista come soggetto sociale. Era una stanza con la mia macchina da scrivere, un tavolo e tutto intorno estratti di pensieri che negli anni ho pubblicato in varie forme e su vari canali. Erano riflessioni su altri artisti o su alcuni eventi culturali, ma anche riflessioni politiche su temi cruciali, come il diritto alla casa. C’erano estratti di articoli che anche al di fuori del sistema dell’arte avevano avuto una eco importante. C’erano anche estratti di libri ai quali ho partecipato non in qualità di artista, ma appunto chiamato come critico o perché sono un editorialista del Corriere della Sera – ora in pausa temporanea per via del ruolo istituzionale che ricopro.
Dopo un periodo a New York, torni a vivere in Italia, a Napoli dove hai tutt’ora il tuo studio nella stessa via dove ha sede la Fondazione Morra, con cui hai collaborato molto. Sei rimasto lì per ragioni lavorative?
Dieci anni a New York sono qualcosa in più di un periodo. È stata la fase professionale più lunga della mia vita. Ma come tutte le fasi si è chiusa. Ho deciso di interrompere quella storia e trasferirmi a Napoli in un momento della mia carriera in cui questo poteva essere possibile, in cui ero diventato forte abbastanza da non avere più bisogno di New York. Però ero anche diventato adulto abbastanza da avere bisogno di un luogo in cui essere felice, perché la vita è molto breve e non si può rimandare troppo a lungo la felicità. A Napoli sto bene. È una città che ha una grande capacità filosofica, di saper vivere. New York è una città piena di dolori, Napoli una città piena di gioia. I napoletani hanno una capacità di farti vedere la vita in maniera sempre costruttiva.
Alla fine hai trovato il tuo altrove a due ore da Roma dove sei nato.
Diciamo che ho fatto un giro tanto lungo per arrivarci. Napoli e Roma sono due città distanti tanto quanto la Svezia e la Nuova Zelanda. Una è stata una teocrazia per quasi mille anni, come lo è ancora lo Stato Vaticano, e l’altra è stato il regno probabilmente più libertario d’Italia.
Come te, anche Garibaldi era stato in America prima di conquistare, mancata l’insurrezione romana, il Regno delle Due Sicilie, per poi consegnare il progetto dell’Unità d’Italia nelle mani dei Savoia…
… e dai Savoia a Mussolini, e poi la guerra. Quel piccolo stato di grazia che è stata l’Italia della Costituente è durato un battito di ciglia. Siamo passati in poco tempo dall’Italia in cui deflagrava Cristo si è fermato a Eboli [scritto da Carlo Levi] all’Italia in cui Pietro Germi girava Signore e Signori. C’è voluto neanche un ventennio per tornare ad essere l’impiastro che siamo ancora tutt’oggi e che forse eravamo quando c’erano ancora i Savoia.
A Roma dovrai comunque tornare per seguire il tuo incarico alla Quadriennale fino al 2024. Hai ancora casa qui?
A Roma vive mia madre che, per combinazione, abita proprio di fronte alla sede della Quadriennale, a Villa Carpegna.
Sei cresciuto lì, nella zona di Via Gregorio VII?
Sì, da bambino andavo a giocare nel parco di Villa Carpegna che però all’epoca era abbandonata.
Perché hai scelto di fare due progetti completamente diversi per la Biennale e per la Quadriennale? Non ci si dovrebbe aspettare da un artista una singola visione culturale applicabile a ogni situazione?
Per la Biennale faccio un lavoro artistico, per la Quadriennale il mio compito è tecnico-organizzativo. In Biennale sarebbe stato un fiasco presentare sotto qualunque forma questa attività di carattere organizzativo. Vediamo invece se riusciremo a fare una buona figura, come paese, in una competizione internazionale dove sono l’arte e la forza visionaria a contare.
La stessa tua visione riformistica della Quadriennale non potrebbe adattarsi anche alla Biennale di Venezia che non viene più riformata da vent’anni?
Sono due istituzioni molto diverse. Il mondo dell’arte italiana è una specie di tavolo che si regge su molte gambe ed è importante che tutte siano solide per poter sostenere le partite che si giocano sopra quel tavolo. La Biennale è una grande istituzione internazionale che rappresenta l’Italia solo in piccola parte, attraverso il suo padiglione. Certo, è un grande strumento di posizionamento dell’Italia sulla scena internazionale, ma questo non basta se poi la scena interna è istituzionalmente debole. La Quadriennale può svolgere un ruolo nel rafforzamento di questo sistema. È un ente scientifico, non esistono altre strutture omologhe. Diciamo che la Quadriennale è un organo unico all’interno dell’organismo culturale italiano. E quando un organo è unico – per quanto piccolo, per quanto periferico – è veramente essenziale che funzioni per poter far stare in salute l’intero organismo. Ma, appunto, l’organismo è fatto di altri organi: i muscoli sono i musei, il cuore è il Ministero della Cultura, e altri organi come gli assessorati locali, le fondazioni private, gli spazi no-profit, etc. Se uno di loro è in crisi, fortunatamente ce ne sono altri a funzionare. Ora c’è da capire se il nostro sistema è in grado di funzionare in modo organico e armonico nel suo insieme o se, com’è stato in passato, vuol andare avanti a singhiozzi. Questo non dipende certo dalla Biennale o dalla Quadriennale. Ci sono altre strutture coinvolte, che hanno ruoli anche più importanti e più strategici. Ed anche queste due strutture possono dare il meglio di sé quando tutte le altre funzionano a dovere. Se succede, la Quadriennale potrà rappresentare un’arte italiana in stato di grazia e la Biennale potrà inserirla in modo vincente nel contesto internazionale.
Per la Quadriennale hai elaborato un piano di monitoraggio degli artisti. Potrai indicare al team curatoriale quali studi d’artisti andare a visitare?
No, il mio lavoro si ferma nello scegliere una squadra di curatori con differenti sensibilità. Saranno poi loro a cercare di costruire assieme un panorama dell’arte italiana contemporanea.
Come hai scelto questi 15 curatori che faranno un censimento degli artisti d’Italia?
Un censimento presuppone una completezza che non credo sia raggiungibile nell’arte e nemmeno particolarmente utile. È importante piuttosto saper riconoscere i fenomeni emergenti e saperli collocare all’interno di un panorama critico leggibile, in cui siano chiare le relazioni, le interdipendenze e anche le scale di valori. I quindici curatori che ho coinvolto nel progetto Panorama sono figure molto diverse tra loro e, proprio per questo, hanno senso come gruppo. Rappresentano differenti sensibilità e percorsi. Questo aiuterà ad avere una certa ampiezza di spettro nell’indagine che ho chiesto loro di portare avanti. Sono figure che non “galleggiano” nel sistema, ognuno di loro è stato capace di fare la differenza nel nostro sistema dell’arte, anche con piccoli gesti. La differenza la fa chi semina, non chi si sbraccia di più.
Credi che influirai con la tua riforma sulla prossima Quadriennale del 2025?
Con il cambiamento dell’istituzione non si dovrà più aspettare la prossima grande mostra per capire gli indirizzi della Quadriennale. La mostra è solo uno dei prodotti della Quadriennale che è un ente di ricerca a tutto campo. Impostare la mostra è una prerogativa del Consiglio di Amministrazione, non del direttore artistico, secondo lo statuto. Io mi occupo e preferisco occuparmi delle metodologie di ricerca e della loro applicazione. Alle mostre è giusto che ci pensino i curatori. I curatori della mostra saranno scelti da un nuovo CdA che si insedierà tra un anno e di cui non conosciamo ancora nessun membro. Ci sono troppe variabili aperte, ma credo ci sarà, nei prossimi mesi e anni un grande riequilibrio tra la Fondazione, come ente di ricerca, e la mostra che è stata fino ad oggi la principale forma di dialogo della Quadriennale con il pubblico. Non voglio certo sminuire l’importanza della mostra, resterà importantissima. Ma nell’arco di tempo che divide una mostra dall’altra, saranno messi in campo strumenti di orientamento culturale e artistico altrettanto interessanti, e attività quotidiane sistematiche che dovrebbero favorire una maggiore partecipazione della Quadriennale al dibattito culturale.