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Artisti testimonial senza gloria
Politica e opinioni
In un esilarante spot di una popolare catena italiana di supermercati, firmato da Woody Allen, alcune persone si aggiravano per quelle che potevano sembrare algide sale di un museo, ammirando e cercando di interpretare il significato di alcuni pezzi di carne “eletti” ad opere d’arte — come le cotolette postmoderne — e posizionati su piedistalli o allestiti su pannelli di metallo, come un vero e proprio display museale. “Guarda che splendore di linee e forme…” dicevano quei personaggi. Oppure: “L’uomo moderno è ciò che mangia” o ancora “In quel macinato sento vibrare tutta la nostra crisi esistenziale”. Il regista, con l’ironia pungente che lo contraddistingue e un certo snobismo intellettuale, giocava sul rapporto tra l’eccellente qualità del cibo e il valore e preziosità delle opere esposte. Ma lo faceva ironizzando sulla diffusissima difficoltà di capire e decodificare l’arte contemporanea, usando una terminologia astrusa ai più.
Nel 1978, nell’episodio de Le Vacanze intelligenti, parte di un film collettivo dal titolo Dove vai in vacanza?, Alberto Sordi con la sua signora, i veraci e popolani romani Remo e Augusta, si aggirano spaesati, ma anche incuriositi, alla Biennale di Venezia. Anche qui l’ironia sul mondo dell’arte contemporanea, sul suo concettualismo e sul suo linguaggio criptico, si sprecava. E gli esempi, anche recenti, sono molti: da Paolo Sorrentino che nel suo La grande bellezza “ridicolizza” la performance e chi la fa, e l’action painting diventa roba da ragazzine talentuose, impetuose e sfruttate, fino alla memorabile scena di Paola Cortellesi nel film Come un gatto in tangenziale in cui interpreta una borgatara romana che si ritrova a Capalbio a casa di intellettuali che raccontano, anche in questo caso, la Biennale di Venezia, citando artisti dai nomi impronunciabili e temi a lei del tutto ostici. L’arte contemporanea, nel cinema, nella pubblicità e nella TV non ha mai goduto di ottima reputazione. Ovvero, il racconto che se ne fa è per lo più sarcastico, derisorio e paradossale. Di contro, sulle riviste specializzate si tende a spingere l’acceleratore su un approccio ancora troppo spesso “critichese” e “comprensibile” per lo più solo agli addetti ai lavori.
Ma che cosa succede nella carta stampata generalista? Va sicuramente meglio rispetto ai media già citati, ma sta succedendo qualcosa di altrettanto perturbante. Non ci sono più le immagini delle opere. Ebbene sì, stanno scomparendo. Guy Debord, nel suo La Società dello Spettacolo, scriveva: “Il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere. Ciò che per esso è sacro, non è che l’illusione, ma ciò che è profano, è la verità.”
Sono un avido “consumatore” di riviste cartacee e negli ultimi anni mi sono reso conto che le pubblicazioni, in particolare di lifestyle e di moda, non sono affatto interessate alle opere che un artista crea: in poche parole, a ciò che fa, a cosa vuole comunicare. Piuttosto, a interessare loro sono i brand che l’artista indossa. Capita sempre più di frequente che in una doppia pagina di un servizio dedicato a un artista contemporaneo, emergente o meno, vi siano solo scatti del personaggio — la cui faccia probabilmente pochi conoscono tra il pubblico generalista — che sfoggia total look di un marchio piuttosto che di un altro. Le didascalie non “raccontano” le immagini delle sue opere, perché non ci sono, bensì ci danno informazioni sul capo X o Y con il nome del brand, spesso, in grassetto. Non mi risulta che per quei servizi gli artisti vengano retribuiti in quanto modelli o influencer o volti di quei brand. Salvador Dalí o Andy Warhol, forse, sarebbero stati felici di vedere così tanti “colleghi” che posano sulle riviste patinate. Ma loro erano, principalmente, geniali testimonial di loro stessi. Che è un’altra cosa!