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Furto al Museo Picasso di Parigi: l’opera d’arte finisce in sartoria
Arte contemporanea
«Potevo farlo anch’io!» – «Allora perché non l’hai fatto?»: è il botta e risposta cliché di fronte al concettuale. «Bisogna sputare ogni giorno sopra l’altare dell’arte!» disse Marinetti. Ma in un mondo dove quasi tutto è paurosamente possibile, il suo motto suona già trito. Seppellite aura ed aureola dell’opera, il pubblico deve interagire, completando l’idea con l’azione. Così, in un curioso switch on, il fruitore muta in performer, l’artista in regista. Il “valore cultuale” di Benjamin impallidisce: la nuova parola d’ordine è disintermediazione. Quali gli effetti collaterali?
Rue de Thorigny, Museo Picasso, Parigi. Tra le opere esposte campeggia Old Masters, dell’artista catalano Oriol Vilanova. Si tratta di una giacca blu appesa alla parete, che i visitatori possono indossare, sfogliando, se vogliono, le cartoline conservate nelle tasche e collezionate nell’arco di 15 anni. L’8 marzo però al muro è rimasto solo il gancio: l’allarme non è scattato perché la giacca d’artista doveva poter essere maneggiata a piacere. Dalle telecamere, alla fine, si è ricostruita la vicenda.
Una distinta signora sui 70 se l’è presa, portandola in sartoria per accorciarla di 30 centimetri, secondo il suo gusto. Pizzicata, la donna ha confessato di non sapere che fosse un’opera, cavandosela con un semplice richiamo. Forse Vilanova ne ha riso, non era questo il suo intento? Possono le quattro mura di un museo arrestare l’eccesso estroso dell’arte contemporanea?
Dal “non toccare” al “se puoi, non portarla dal sarto”, la segnaletica dei luoghi d’arte ha fatto molta strada. Certo, Old Masters non è la prima opera a subire sorprese. Chiunque sa della banana di Murizio Cattelan da 120mila dollari, sigillata con nastro adesivo, che il performer David Datuna ha sbucciato per farci merenda. E, in fondo, che tra artisti ci si strizzi l’occhio capitava anche in passato. Come quando Man Ray fotografò il quadro di Giorgio De Chirico, Enigma di una giornata, con André Breton in posa. Proprio, lui, il padre del surrealismo, che disse: «L’opera d’arte ha valore soltanto in quanto traversata dai riflessi del futuro». L’inclusione del pubblico invece è un’altra storia. È la storia, ad esempio, di quel mucchio di caramelle da scartare in un angolo del Met Breuer (New York); poetico ready made di Félix González-Torres. Ma quali sono stati i primi segnali dell’odierna apertura dell’arte all’ingolosito fruitore?
Exhibitions in Real Time, Franco Vaccari, Biennale di Venezia, 1972. Una cabina per fototessera, una lunga parete bianca. La didascalia parlava chiaro: “Leave on these wall the photografic trace of your passage”. Neanche a dirlo, la parete si infoltì di foto di ogni risma. E ci ricorda che già negli anni ’30 nasceva un oggetto squisitamente disintermediante: la polaroid. Per sviluppare privatissime immagini erotiche senza dover passare dalle stamperie. Vaccari esortava alla partecipazione, perfino al narcisismo. Lo stesso che ha portato l’opera di Vilanova in sartoria. L’arte contemporanea è processuale, conta ciò che accade. Old Masters si arricchisce – è un paradosso – grazie al furto. Quella giacca ha ora una storia in più, unica e memorabile.
“De te fabula narratur” diceva l’opera al pubblico, sin da quando Duchamp proponeva il gioco voyeuristico dello spioncino nel suo ultimo lavoro, Étant Donnés; offrendo alla vista una donna nuda attraverso i fori di una porta. È il peep show che riprese poi Giosetta Fioroni nel ’68, mostrando, da una serratura, la sua camera da letto.
Da oltre mezzo secolo si è cercato lo sguardo ravvicinato del fruitore, il suo coinvolgimento. Lo si è sedotto con immagini segrete ed inviti illeciti per una capillare smaterializzazione dei confini estetici dell’arte. Per queste vie si è giunti dal culto di un dipinto sacro al cesso d’oro di Cattelan, con licenza di usarlo (e di rubarlo, anche in questo caso). Il furto di “un’opera scambiata per giacca”, non può che essere l’esito naturale di questo sconfinamento.