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Corpo sportivo e sociale: intervista a Marilisa Cosello
Arte contemporanea
Sono gli ultimi giorni, questi, per visitare Try, la prima personale di Marilisa Cosello alla Galleria Studio G7 di Bologna prorogata fino al prossimo 20 aprile. Try è un progetto inedito e itinerante che Cosello porta avanti dal 2020 in cui centrale è il corpo femminile e l’indagine delle sue potenzialità espressive attraverso lo sport e l’esercizio ginnico, reso strumento narrativo per definire gli assetti sociali della nostra contemporaneità. Nelle sue azioni, Cosello recupera l’immaginario olimpico, inteso come scenario collettivo e condiviso, e la sua tipica propaganda utilizzata qui per raccontare il femminile oltre ogni stereotipo di genere: nei corpi messi in scena dall’artista la forza muscolare e la preparazione atletica diventano paradigmi di un possibile racconto dell’Io a contatto con le costrizioni sociali.
A conclusione della mostra allo Studio G7, incontro Marilisa Cosello per rivolgerle alcune domande a partire da una prima curiosità per la scelta del titolo di questo progetto, Try, termine ricco di sfumature semantiche e possibili letture.
“Try è un’opera complessa” precisa Marilisa Cosello. “Il titolo stesso di questo progetto a lungo termine si relaziona all’idea di azioni e gesti che gli atleti compiono ripetutamente. Provano, provano in continuazione. È estenuante. In questa ripetizione c’è una relazione con la nostra esperienza di vita, la nostra condizione quotidiana.
Volevo esplorare, o meglio, occupare questo atto determinato che è l’atto sportivo. Niente nello sport è improvvisazione: lo sport è fatto di regole dal primo all’ultimo gesto. In Try, il corpo è visualizzato all’interno di spazi d’azione intrecciati con regole, tempi e ordini e questa esperienza fisica si manifesta come simbolo della condizione umana, sia individuale che collettiva. Ciò che voglio produrre con ogni performance è un’instabilità che metta in discussione come viviamo”.
Nella tua pratica mescoli i linguaggi alternando performance, fotografia, video, pittura e disegno. Come si potrebbe definire esattamente la tua ricerca?
È una sequenza di ipotesi e le ipotesi prendono la forma di più opere. È completamente tautologico, ma all’interno di quella tautologia le ipotesi prendono forma e si trasformano in scelte. Potrei non essere in grado di descrivere com’è il mondo, ma posso riflettere su come potrebbe essere il mondo. Nella mia ricerca mi interrogo sul corpo e la politicizzazione dell’estetica e come questo si traduce in un’imposizione seminale sulle possibilità dell’essere umano, della cultura di massa e del modo in cui tale estetica è persistente nel contemporaneo. La società è per sua stessa natura tesa all’identificazione e definizione di tutto e nelle mie opere cerco di rendere il corpo non completamente decifrabile, lasciando un vuoto che non consente un’identificazione stabile. Lo chiamo solo corpo, ma è il corpo politico che è rappresentato in modo specifico. Nei miei lavori si ha la costante sensazione che stia per accadere qualcosa, c’è una tensione che si accumula che non si traduce mai in qualcosa. Voglio creare un vuoto nella definizione attraverso una riappropriazione violenta, una violenza che non è mai esplicita o dichiarata.
Come performer ti sei confrontata spesso con lo spazio pubblico e urbano. Nel passaggio della tua azione in un contesto privato quali differenze hai riscontrato?
Gli spazi che utilizzo per le azioni performative sono organismi complessi che fondono immagini preesistenti con nuove possibili definizioni. Il contesto – cioè il luogo, lo spazio e il pubblico – influenza direttamente la performance. Con direttamente intendo in modo più rapido e inesorabile che in altre forme d’arte. Realizzare Try #5 nello spazio bianco della Galleria Studio G7 ha spogliato l’azione di qualsiasi decorazione, anche involontaria, data dallo spazio pubblico e l’ha lasciata nuda. Giorgia Bordignon, argento olimpico nel sollevamento pesi, che è la protagonista di Try #5, sentiva la pressione del pubblico, vicinissimo, che la osservava. Tra le mura bianche della galleria non c’erano punti di ancoraggio, l’immagine era diretta e frontale. È sempre affascinante per me vedere come le atlete reagiscono a Try, all’atto di esporle in quello che, per me, è una modalità violenta. La distanza all’interno dello spazio tra le performer e il pubblico rappresenta il raggio di confronto tra identità individuale e sguardo collettivo.
Ogni nuovo episodio di Try è caratterizzato da un preciso colore con il quale segni il corpo delle tue atlete e le loro uniformi. Quali sono i motivi di questa tua scelta?
I costumi nelle mie opere sono come uniformi che operano a livello simbolico: mediano le interazioni tra individui e gruppi; offrono indizi visivi agli osservatori che portano ad aspettative sul comportamento e sullo stato sociale di chi li indossa. L’abbigliamento è un indicatore silenzioso e visivo di identità e relazioni sociali. In tutte le performance di Try intervengo sulle divise sportive, realizzate in bianco Spruzzo gli abiti con lo spray, direttamente sul corpo delle atlete. I colori costituiscono un archivio, una sorta di enciclopedia dei miei personali Giochi Olimpici. Inoltre, simboleggia il colore che noi donne produciamo e volevo visualizzarlo in modo astratto, pittorico. Il mio atto di spruzzare e in qualche modo sporcare è una sorta di vendetta nei confronti della storia, della società, delle circostanze rispetto all’identità del femminile.
Un’ultima curiosità è per la tua decisione di raccontare uno sport tutto al femminile. Quale pensi sia il ruolo della donna oggi nel mondo della pratica sportiva?
Le atlete sono aspirazionali, non sono identificabili come se stesse, rappresentano qualcos’altro. Si tratta della manifestazione fisica di un’immagine che è già stata immaginata e riproposta. C’è qualcosa di perverso nel modo in cui scegliamo gli eroi nella nostra società, poiché hanno le caratteristiche dei santi. La costruzione di questa immagine è svuotata di tutto ciò che è umano. Non c’è paura, non c’è dolore, non c’è desiderio. Sono ciò che la nostra società cerca di produrre: un’immagine perfetta. Lo trovo terrificante e allo stesso tempo ne sono attratta. È un sentimento complesso e ambivalente, che s’intreccia con il ruolo del femminile nella società, la storia e la rappresentazione della realtà nella scena contemporanea.